POLITICA & PAROLE, “C’è del marcio a Roma”

Abbiamo chiesto allo scrittore e saggista Mimmo Nunnari di rileggere per noi “Capitale corrotta - nazione infetta”, era il titolo di una clamorosa inchiesta giornalistica pubblicata sul settimanale “L’Espresso” dell'11 dicembre 1955. La città, cui si riferiva Manlio Cancogni, autore dell’articolo, era Roma che da quell’articolo usciva a pezzi, si mostrava come una palude di melma, un regno dell’imbroglio.

di Mimmo Nunnari
Domenica 28 Agosto 2022
Roma - 28 ago 2022 (Prima Pagina News)

Abbiamo chiesto allo scrittore e saggista Mimmo Nunnari di rileggere per noi “Capitale corrotta - nazione infetta”, era il titolo di una clamorosa inchiesta giornalistica pubblicata sul settimanale “L’Espresso” dell'11 dicembre 1955. La città, cui si riferiva Manlio Cancogni, autore dell’articolo, era Roma che da quell’articolo usciva a pezzi, si mostrava come una palude di melma, un regno dell’imbroglio.

Quell’inchiesta, rimasta scolpita nella storia del giornalismo, l’ha ricordata qualche anno fa Eugenio Scalfari che fu tra i fondatori del settimanale. Nel libro “La sera andavamo in via Veneto” Scalfari scrive: “Lo slogan di quella campagna [giornalistica] sollevava un tema gravissimo: il degrado della città, causato da una speculazione selvaggia, tollerata e incoraggiata da autorità comunali deboli o corrotte e da settori politici profondamente inquinati”.

Quel che è successo a Roma negli anni successivi alla denuncia dell’Espresso, lo abbiamo letto in un libro recente: “L
’assedio: storia della criminalità a Roma” (Carroccio editore) in cui l’autore Enzo Ciconte fa emergere il marcio esistente nel cuore e nel ventre della città eterna. Ma Roma, su questa sua condizione ha sempre minimizzato: quasi che il solo parlarne, scrive Ciconte, significasse sporcare l’immagine della Città Eterna.

Anche la magistratura, ha minimizzato sulla mafiosità di Roma.

 La sentenza, con cui il Tribunale ha bocciato, nel processo Mafia Capitale, quel che la Procura della Repubblica riteneva fosse mafioso, dice che a Roma la mafia non c’è. Crollato il castello accusatorio della Procura, l’onore della Capitale, centro nevralgico della politica italiana, è salvo. Eppure, a Roma, negli ultimi decenni, è successo di tutto e di più: omicidi, estorsioni, pratiche usuraie, sistematiche corruzioni, collusioni della politica con organizzazioni criminali. Ma le sentenze non si discutono.

Tuttavia, la realtà degradata di Roma, mediaticamente nascosta in un groviglio di convenienze allargate, è sotto gli occhi di tutti.  Non si vede quel che non si vuol vedere.  

Anche l’ultima sceneggiata ciociara del “me te compro” e “li ammazzo” che ha coinvolto il capogabinetto del sindaco di Roma è emblematica del “pessimo clima romano”.

La piazzata notturna davanti ad un’osteria ripropone una realtà paludosa della Capitale sulla quale galleggia una striscia maleodorante di brutture mai viste prima e mai vista altrove, a dimostrazione che a Roma c’è il “marcio d’origine”, di cui, come italiani, abbiamo ogni primato di produzione. Il linguaggio volgare spiega molto del clima malmostoso della Capitale. E’ come l’idrometro che misura il livello delle acque dei fiumi.

 Il “me te compro” o “li ammazzo” del capogabinetto del sindaco di Roma (Pd) ma anche “Lo sfonnamo de brutto” pronunciato dalla vicepresidente del Senato Paola Taverna (M5Stelle) e riferito al presidente del Consiglio Draghi indicano il livello della putredine. Sono espressioni scurrili e semanticamente violente, entrate “de brutto” nel linguaggio del pentolone romano.

Parole che paralizzano la politica e l’abbassano al livello della Suburra che un tempo era il rione più popolare di Roma, storicamente malabitato e malfamato. Nella post politica le parole si adagiano alla realtà dei tempi, dice Giuseppe Antonelli, autore di un utilissimo libro (“Volgare eloquenza”, editore Laterza) che indaga sulla neolingua politica italiana che ci riporta agli istinti e alle pulsioni primarie.

Roma, città degli imperatori, dei papi, del patrimonio artistico più importante del mondo è al centro dell’imperversare di questo nuovo lessico politico che mira a colpire l’istinto popolare. E’ l’esempio del parla come mangi che ha avuto grande successo, del parlare alla pancia, con una lingua rozza, semplicistica, aggressiva.

“L’elenco delle espressioni in romanaccio è lungo: “Te sporvero” (ti picchio), “Fatte la mappa de li denti, che mò te mischio” (ti prendo a pugni in faccia), “Te gonfio e poi te scoppio” (minacce di violenza).

Alcune, fanno sorridere: le abbiamo sentite nei film di Aldo Fabrizi, Alberto Sordi, Carlo Verdone, ma quelle espressioni migrate dalla Suburra al dibattito politico, sono le peggiori, le più odiose, le più rancorose.
Mostrano il livello della lingua grossolana e paramafiosa della capitale.

Se dicessimo, infine, che c’è del marcio a Roma, non saremmo molto lontani da quel “c’è del marcio in Danimarca”, utilizzato per indicare azioni disoneste e imbrogli. Che l’espressione originale sia una citazione presa dall’Amleto di Shekeaspire, non migliora certo la situazione.

Danimarca, o Roma, il marcio è sempre marcio, e il linguaggio è il fedele interprete di quest’Italia diventata tutta Roma, mentre la cultura del passato da cui avrebbero potuto e dovuto venirci moniti ed esempi (citiamo Montanelli) si è adeguata.


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