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Dibattito pubblico confezionato come un racconto seducente, calibrato per apparire inevitabile, in realtà nasconde una trasformazione profonda che riguarda non solo il singolo individuo ma l’intera architettura morale della società.
Dibattito pubblico confezionato come un racconto seducente, calibrato per apparire inevitabile, in realtà nasconde una trasformazione profonda che riguarda non solo il singolo individuo ma l’intera architettura morale della società.
Da anni il dibattito pubblico su eutanasia e suicidio assistito viene confezionato come un segnale di progresso. La fine dell’arretratezza culturale. L’ingresso in una modernità più matura, capace di riconoscere il diritto a decidere quando e come morire. È un racconto seducente, calibrato per apparire inevitabile. In realtà nasconde una trasformazione profonda che riguarda non solo il singolo individuo ma l’intera architettura morale della società.
Per comprendere davvero questo cambio di paradigma dobbiamo partire da una domanda semplice. Da dove nasce oggi la richiesta di eutanasia? Nasce dall’autodeterminazione? Oppure nasce da un sistema sociale che non regge più il peso dei suoi fragili, dei suoi malati, dei suoi anziani? Lo sguardo lucido mostra una verità che molti preferiscono ignorare. L’eutanasia non è la risposta moderna ad un bisogno antico. È il prodotto di una società che ha smesso di occuparsi degli ultimi. Che non investe più nelle cure palliative, nell’assistenza domiciliare, nella medicina territoriale, nell’accompagnamento al fine vita. Quando la cura si indebolisce, la morte diventa una scorciatoia presentata come liberazione.
Non è un caso se le spinte legislative arrivano sempre insieme ad un arretramento dello Stato sociale. Quando mancano strutture, medici, infermieri, psicologi, volontari, risorse economiche, tempo umano. Quando la solitudine del malato diventa un fatto privato e non più una responsabilità collettiva. È in quel vuoto che la morte programmata viene raccontata come gesto di pietà. Una soluzione rapida, ordinata, pulita. Una soluzione che permette allo Stato di dichiarare concluso un capitolo che non sa più gestire.
Dietro l’idea del suicidio assistito si muove un disegno più grande. Un disegno che appartiene alla logica del globalismo contemporaneo, che vede nella vita un bene amministrabile e nella morte un atto regolabile attraverso procedure standard. È il trionfo della mentalità tecnica. La vita diventa un dossier, la sofferenza un parametro, la morte un servizio. Siamo a un passo da una società in cui il valore della persona sarà definito dalla sua efficienza e dal suo costo. È questa la vera minaccia. Non la libertà, ma la trasformazione dell’essere umano in un elemento di bilancio.
Nel dibattito pubblico ricorre un’espressione ingannevole: “buona morte”. Una formula che sembra rassicurante. Ma la buona morte non esiste. Esiste il buon accompagnamento. Esiste la medicina che si chiede come alleviare il dolore, come sostenere l’angoscia, come aiutare una famiglia smarrita. Esistono medici che sanno entrare nel silenzio di un paziente e restare accanto a lui con responsabilità e umanità. Tutto questo però richiede risorse, attenzione, tempo. Richiede uno Stato che considera la fragilità non un intralcio ma una parte della vita da proteggere.
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