"La gestione del Covid in Senato: paura, controllo e nuove verità sulla pandemia"

Il dibattito in Senato riaccende il caso “pandemia” e il ruolo del potere nella gestione dell’emergenza sanitaria. Dalla medicina amministrata al “Green Pass” come strumento di controllo: un’analisi su come la paura sia diventata metodo di governo.

di Massimo Fioranelli
Domenica 19 Ottobre 2025
Roma - 19 ott 2025 (Prima Pagina News)

Il dibattito in Senato riaccende il caso “pandemia” e il ruolo del potere nella gestione dell’emergenza sanitaria. Dalla medicina amministrata al “Green Pass” come strumento di controllo: un’analisi su come la paura sia diventata metodo di governo.

Non è stata solo una pandemia. È stato un esperimento di controllo. Un progetto globale che ha trasformato la medicina in amministrazione, la scienza in propaganda e i cittadini in sudditi disciplinati.
Il Covid è stato la più grande prova generale di gestione delle masse della storia moderna. Tutto è iniziato nel caos, ma quel caos è diventato metodo. Si è imposto il dominio della paura, ripetuta, misurata, alimentata ogni giorno da numeri e decreti. I morti contati in diretta, le conferenze stampa serali, la retorica dell’emergenza: un linguaggio uniforme, pensato per immobilizzare la mente collettiva.
La medicina non curava più, amministrava. I protocolli sostituivano il pensiero, le circolari il giudizio clinico. Il medico divenne un esecutore, non un osservatore. Chi curava fuori schema veniva sospeso, chi dubitava marchiato come negazionista. Il dissenso fu trattato come malattia da estirpare.
La paura è stata il primo farmaco di massa. Ha paralizzato la razionalità, ha reso accettabile l’assurdo: la chiusura delle scuole, l’isolamento degli anziani, l’idea che si potesse vietare il contatto umano “per il bene comune”. La popolazione fu rieducata alla distanza, all’obbedienza, al silenzio.
Le autopsie, il metodo clinico, la discussione scientifica, tutto ciò che definisce la medicina vera,  vennero sospesi. Si doveva solo credere. Il pensiero critico era un rischio, la verifica un reato. Le decisioni scendevano dall’alto, spesso contraddittorie, ma sempre giustificate con una parola magica: sicurezza.
Si crearono nuove gerarchie: chi poteva parlare e chi doveva tacere. Si censurò in nome della verità, si punì in nome della scienza, si mentì in nome della salute. In pochi mesi il mondo libero divenne un laboratorio di controllo comportamentale.
Ci dissero che era per la sicurezza di tutti. Ma la sicurezza, in quei mesi, fu la nuova frontiera della discriminazione.
Mentre si celebravano gli eroi in camice, nei reparti si chiudevano le porte ai malati cronici, ai fragili, ai non conformi. La medicina si trasformò in un filtro morale. Curava chi aveva il documento giusto, non chi aveva bisogno.

Chi non possedeva un Green Pass non era più un cittadino, ma un sospetto. Non poteva entrare in ospedale, non poteva accompagnare un genitore, non poteva donare il sangue o ricevere un trapianto. Persone già malate vennero lasciate sole, come se la salute fosse una concessione e non un diritto.
Nei parcheggi degli ospedali, donne in travaglio partorivano senza poter entrare. Nelle oncologie, le terapie venivano rinviate o sospese. I reparti di riabilitazione si svuotavano. L’assistenza domiciliare sparì. Per mesi, la medicina smise di essere cura e divenne controllo.
In quei giorni, le immagini che circolavano parlavano un linguaggio surreale: personale sanitario che ballava, mentre pazienti reali morivano di abbandono, di solitudine, di ritardi evitabili. La realtà era più dura: i protocolli avevano sostituito il pensiero, i regolamenti la compassione.
Non è accettabile che in un Paese civile si neghi l’accesso alle cure in base a un codice digitale. La salute non può essere subordinata all’obbedienza.
Le tecnologie digitali completarono l’opera. Il Green Pass, presentato come misura sanitaria, divenne uno strumento di selezione sociale. Un codice QR decise chi poteva entrare, lavorare, viaggiare, curarsi. Era la medicina trasformata in algoritmo.
La pandemia ha mostrato come il potere possa usare la salute come leva politica. Non per proteggere, ma per dirigere. Non per informare, ma per addestrare. Si è costruita una società della sorveglianza travestita da civiltà del benessere.
Oggi, in Senato, le prime verità cominciano ad affiorare. Si parla di errori, ma gli errori non bastano a spiegare un sistema così preciso, così coerente nella sua deriva. Dietro la confusione apparente, c’era un disegno: centralizzare, controllare, uniformare.
Non è più il tempo delle scuse. È il tempo della consapevolezza. Perché la paura non è finita: è diventata metodo di governo. E solo la memoria può spezzare questa catena invisibile che ci hanno messo addosso. Ma è anche il tempo in cui si compia la giustizia.
La medicina dovrà tornare ad essere libertà, non strumento di potere. La scienza dovrà riconoscere i suoi errori, non giustificarli. E la società dovrà capire che la salute non è mai stata l’obiettivo: è stata la chiave per aprire la porta del controllo.



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