Scuola. Dietro i diplomifici la crisi del Paese. Anna Maria De Luca “Ha ragione Valditara”

Il Ministro Valditara toglie la parità a numerosi istituti ma invece del grazie scattano i ricorsi. Abbiamo chiesto un’opinione su questo tema ad una studiosa di problemi della Scuola, per anni Dirigente Scolastica, ma anche giornalista e opinionista affermata e molto seguita.

(Prima Pagina News)
Lunedì 12 Agosto 2024
Roma - 12 ago 2024 (Prima Pagina News)

Il Ministro Valditara toglie la parità a numerosi istituti ma invece del grazie scattano i ricorsi. Abbiamo chiesto un’opinione su questo tema ad una studiosa di problemi della Scuola, per anni Dirigente Scolastica, ma anche giornalista e opinionista affermata e molto seguita.

La cronaca di questi giorni di agosto conferma quanto il tempo sia galantuomo: arriva sempre al momento giusto, anche quando si tratta di chiarire il valore di parole controverse.

Una delle più dibattute in Italia, da sempre, è la parola “merito”.  Dopo decenni di discussioni mai risolte tra interpretazioni di destra e interpretazioni di sinistra, la polemica è ritornata ad infuocarsi quando, con l’attuale Governo, il MIUR diventò MIC cioè Ministero dell’Istruzione e del Merito. Un atto di coraggio inserire la parola merito, così facilmente attaccabile, nel nome stesso del Ministero.

Perché riprendere ora quel dibattito? Perché quanto accaduto in questi ultimi giorni si innesta direttamente, come una spada, nel concetto di merito, costringendo tutti a fare un salto temporale che ci riporta appunto al senso di quella antica discussione. Mi riferisco alla decisione del ministro Valditara di togliere lo status di parità a numerose scuole, in Calabria, Campania, Lazio e Sicilia, che rilasciano diplomi senza rispettare i requisiti necessari per garantire la qualità dell’istruzione: classi e laboratori fantasma, discipline mai studiate e voti inventati, professori senza abilitazione, alunni mai visti, registri elettronici regno del fantasy, eccetera.

Trovo grave il fatto che nei media sia passata inosservata la chiusura di tanti diplomifici ma trovo ancora più grave i commenti che ho letto su alcuni giornali: ci si chiede dove andranno ora quei ragazzi che erano stati parcheggiati dai genitori in scuole non scuole con l’obiettivo di ottenere un diploma, utilizzabile nella forma, per battere, nel mercato del lavoro, la concorrenza dei coetanei. Meglio ancora se accompagnato da qualche raccomandazione di famiglia: evenienza abbastanza facile dato che per iscriversi a quel tipo di scuole i soldi bisogna averli.

Il Codacons ha commentato: “Si aprono ora le porte ai ricorsi da parte non solo degli istituti paritari di tutta Italia ma anche delle famiglie contro i provvedimenti del ministero che arrivano a ridosso dell’avvio degli anni scolastici”. Per comprendere questo commento ho necessità, con me stessa, di mettere su carta e in modo chiaro alcuni passaggi logici.

Uno: Codacons significa “coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e per la tutela dei diritti degli utenti e dei consumatori”.  Due: la Treccani, che personalmente ho sempre considerato la mia Bibbia,  definisce il merito: “Il diritto che con le proprie opere o le proprie qualità si è acquisito all’onore, alla stima, alla lode, oppure a una ricompensa (materiale, morale o anche soprannaturale), in relazione e in proporzione al bene compiuto (e sempre sulla base di un principio etico universale che, mentre sostiene la libertà del dovere, afferma la doverosità dell’agire morale).  Tre: l’articolo 34 della nostra Costituzione, sul diritto all’istruzione, dice che «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi».

Posti questi tre punti, si aprono due domande semplici. La prima : conoscendo il nostro sistema scolastico e tutti i supporti che mette in campo per i più fragili, cosa spinge un ragazzo ad iscriversi ad un diplomificio? Trovo solo una risposta: la volontà dei genitori di avere un figlio diplomato. E non importa se lui di studiare proprio non ne vuole sapere. E non importa se non ne vuole sapere perché ha sperimentato a casa che non ha bisogno di faticare per ottenere ciò che vuole. Come avere dunque quel “pezzo di carta”? Per alcuni, per chi se lo può permettere, pagare è sempre meno faticoso che convincere il proprio figlio a studiare. Niente di più lontano da quella libertà del dovere, sostenuta dalla doverosità dell’agire morale, di cui parla la Treccani.

La seconda domanda: quale messaggio passa ai figli? Non serve faticare, se papà e mamma possono evitartelo. Fin qui posso non giustificare, ma capire: è una storia banale, ripetitiva, vista mille volte. Ciò che proprio non capisco però è perché, nel momento in cui il Ministero dice: attenzione, state pagando per tenere vostro figlio in una scuola che non ha i requisiti per far parte del sistema di istruzione italiano, invece di scattare un “grazie, non lo sapevamo”, scattano i ricorsi. Ciò significa solo una cosa: “sapevamo che quella non è una scuola ma lasciateci comprare in pace i nostro diploma perché già sappiamo come usarlo in futuro”.

Ecco, c’è un mondo dietro alle due righe uscite sui giornali a proposito della revoca della parità a tante scuole. In primis, la mancanza di fiducia nei propri figli. Ma c’è anche una considerazione che annulla uno stereotipo della politica: accusare questo Ministero, per via del colore politico, di voler favorire la scuola privata a quella pubblica. I fatti dimostrano che così non è perché se Valditara avesse voluto favorire il privato per “smontare” il pubblico o “privatizzare” il pubblico, come pure ho sentito dire, certo non si sarebbe messo a far la guerra ai diplomifici: avrebbe continuato sulla linea del passato, di “chiudere un occhio”.

Qua non è questione di destra o di sinistra, la questione è la serietà di un ministro che crede in quel che fa e che pretende, giustamente, che la stessa serietà sia adoperata da chi lavora nella scuola, da chi la frequenta e da chi vi iscrive i propri figli. E i ricorsi annunciati dai sindacati, allora?   

Lapalissiano: se vado al supermercato a comprare un chilo di pane, a casa devo portare un chilo di pane. Se vado a scuola per comprare un diploma, a casa devo portare il diploma. Non è contemplato che lo Stato intervenga a tutelare i ragazzi perché quello che stanno comprando “non è un diploma”. Se succede, come in questo caso, allora scattano i ricorsi. Lineare, Watson, direbbe qualcuno.  Del resto, il merito resta uno dei problemi più annosi del nostro Paese. La causa è sempre la stessa: l’occupazione illegittima di posti strategici da chi non ha le competenze per farlo. E anche da chi le ha, sulla carta, ma non nella sostanza. E se un ministro prova ad invertire la rotta, ci pensano i sindacati ad annunciare ricorsi. Ovviamente, a pagamento. (Anna Maria De Luca)


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