Madri nella Storia. Giuseppe Trebisacce usa il romanzo per raccontare la vera storia dell’Alto Ionio calabrese

Libri da leggere sotto l’ombrellone, libri d’estate, ma anche libri che ci riportano al passato. Cicciarèlle, l’ultimo romanzo dello studioso Giuseppe Trebisacce, Ordinario di Storia della Pedagogia all’Unical, riscopre prepotentemente la figura delle madri nella storia del Sud.

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Giovedì 18 Luglio 2024
Roma - 18 lug 2024 (Prima Pagina News)

Libri da leggere sotto l’ombrellone, libri d’estate, ma anche libri che ci riportano al passato. Cicciarèlle, l’ultimo romanzo dello studioso Giuseppe Trebisacce, Ordinario di Storia della Pedagogia all’Unical, riscopre prepotentemente la figura delle madri nella storia del Sud.

Di Alessandra Mazzei

 

Inizia con un andamento spedito, ma allo stesso tempo lento, asciutto e carico di attesa Cicciarèlle. La voce narrante, infatti, senza preamboli e descrizioni, parla immediatamente, in terza persona, della sua venuta al mondo, pur senza ancora nominarla fin quasi alla fine della seconda pagina, dove le viene attribuito il nome formale -quello solo anagrafico- di Beatrice; ci vorranno altre due pagine perché compaia il nome vero, quello suo, quello eponimo di questo racconto lungo ‘come un romanzo’. Nome che fa la sua comparsa con una concreta consistenza, anche sonora, -esso stesso quasi personaggio! - in un climax crescente ed insistente -Cicia; Ciciaré, CiciarèlleCicciarèlle, che sin da subito si conforma alle andature cantilenate, e ripetitive delle parlate -e delle apostrofi- popolari calabre.

 

È un personaggio a sé della storia anche il dialetto, che per caratteristiche e riferimenti riconduciamo all’alto Jonio cosentino, sebbene del borgo in sé -certo per precisa scelta strategica e di letteraria memoria- si nominino contrade, vicoli e mille personaggi, senza che mai venga esplicitamente detto il nome; si apprende che si trova non lontano da Castroregio e Albidona, si citano le vicine Rossano e Castrovillari, ogni città e luogo è definito con precisione e puntualità, ma non il nome di questo paese. Insieme agli altri indizi è la biografia dell’autore a strizzarci l’occhio e a suggerire che possa trattarsi di Roseto Capo Spulico.   

 

Ma la Cicia, Ciciaré, Ciciarèlle, Cicciarèlle che per prima saluta il pubblico è la nonna paterna della protagonista omonima, non è la bambina che accompagneremo fino al suo essere adulta, moglie, madre, donna, cittadina.

 

È vero che è lei a dare il titolo alla narrazione, ed è anche vero che di lei riusciremo, non senza desiderio ogni volta di andare avanti, a seguire, tra i capitoli, un andamento progressivo della vicenda biografica. Eppure, non diremmo che sia lei la protagonista. Protagonista è la comunità di questo racconto corale, le sue storie nella grande Storia, la sua mentalità, i suoi aneddoti, i suoi sacrifici, la sua capacità di adattamento e la forza della sua resistenza.

 

Formalmente esterna e unica è la voce narrante, ma tale, per sua consistenza, da sembrare interna per come, tra ciottoli e rituali, ha saputo raccogliere, spesso in modo esplicito, non solo le vicende, le movenze e le parole della gente, ma l’essenza stessa di quella spiritualità e di quella dimensione affettiva che, com’è spesso dei calabresi, restano tra le righe, riservate, sobrie, asciutte, mai retoriche, mai enfatizzate; a volte così essenziali da sembrare quasi non esserci.

 

Ci sembra, pertanto, di trovarci al centro di una narrazione polifonica, ad incastro, in cui lo svolgimento lineare, la struttura temporale della vicenda della protagonista cede spesso il passo alla dimensione fluida e a volte circolare della memoria e della oralità, in cui la digressione non è eccezione, ma regola.

 

Sì, perché lo scopo dell’opera non sembra tanto, o non solo, raccontare di Cicciarèlle e della sua famiglia: alla fine delle pagine capiamo che queste sono state gli esili, ma certo consistenti, fili di Arianna di un labirinto, un complesso edificio -anche interiore- assolutamente interessante e avvincente, di cui l’autore mostra di conoscere bene anse e meandri, percorsi tra cui si muove con familiarità, mentre con sicurezza e semplicità ci accompagna ad attraversarli. Tale è la naturalezza della scrittura che tutta la diegesi sembra essere una vera e propria passeggiata tra i vicoli di quel borgo: contorti, all’inizio, per lo straniero visitatore-lettore, ma non per la sua guida che, non smettendo mai di narrare, di quei luoghi -e alla fine forse anche di sé- palesa emozioni e identità, ma con una discrezione asciutta -severa a tratti-, che non fa mai storcere il naso, non ha mai del melenso.  

 

E che questa semplicità scarna, questo lessico concreto fatto di cose e di precisione, di conoscenza e di materia, sia un risultato per nulla semplice, ma perseguito e ottenuto, ne sono indizio palese alcuni brevi, ma significativi cedimenti, in cui lo stile, per poche battute, cambia registro e diviene più aulico e sentimentale, anche a partire da momenti di semplice quotidianità: “La famiglia era riunita a tavola, intenta a mangiare una frittura di seppie che Giambattista aveva pescato la sera precedente alla luce di una pallida luna che passeggiava tra le nuvole in compagnia di Venere, illuminando d’un colore argenteo l’ampia distesa del mare”. Immediatamente dopo -quasi che l’autore si volesse con velocità riprendere da quella debolezza romantica appena lasciata trasparire-, il dialetto, la satira e il tono popolare riprendono spazio.

 

Ma anche in altre occasioni -poche in verità- riusciamo ancora a sbirciare attraverso questi spazi in cui l’autore, che normalmente segue la lezione del realismo flaubertiano di eclissarsi, rimanendo invisibile, sembra invece lasciarsi scoprire. Eccolo che torna a fare capolino dietro una lirica descrizione di ambiente, che unisce precisione e suggestione: "Un silenzio irreale avvolgeva la distesa, di  tanto in tanto interrotto dal sibilo, ora dolce e carezzevole, ora aspro e violento, del vento, dal verso caldo e melodioso dei fringuelli e delle cinciallegre o da quello stridulo e gracchiante delle taccole che nidificavano all’ombra della vicina Torre spaccata". E ancora di più rieccolo, verso le ultimissime battute, intenerito, come oramai anche noi, per la sua -e la nostra- Cicciarèlle, il cui "volto si inumidiva di tiepide lacrime che ne illuminavano i tratti ancora belli, seppur segnati dagli affanni e dai patimenti della vita che scorreva inesorabile".

 

In questa vigna dissodata con severità e scrupolo, con ossequio alla verità e al dato storico, con rispetto per queste vite segnate da "una ripetitività ancestrale esasperante" e dalla inevitabilità dei sacrifici e della sopportazione del dolore, Giuseppe Trebisacce mette a disposizione la sua consolidata tecnica per offrirci una narrazione a grappoli, in cui la densità delle memorie corali di una comunità ha assunto il sapore di un’urgenza personale e sembra essersi fatta anche storia individuale e materia identitaria.

 

Forse il fascino, il valore e la significatività di questo che è, senz’altro, un romanzo, risiedono proprio in questo inevitabile, naturale e necessario intersecarsi di dimensione plurale e individuale, comunitaria e personale; intersecarsi che appartiene certamente al piano della narrazione di Cicciarèlle e della sua gente, ma -azzardiamo- anche, e con riserbo, a quello autoriale.

 

Un io che si definisce anche in relazione e a misura di un noi -storico, geografico e narrativo- fortemente caratterizzato e caratterizzante ha molto da insegnare a questo nostro tempo in cui spesso, in nome di una globalizzazione che vorrebbe reclamare libertà e modernità, rischia lo smarrimento, scivolando in un’impersonale assenza di identità, di coralità e, quindi, della possibilità stessa di raccontare e di raccontarsi.

 

 


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