Felice Manti: “Il Grande Abbaglio. Sulla strage di Erba avevamo ragione noi”.
Uno dei testimoni più iconici del Giornalismo d’Inchiesta di questi anni in Italia è certamente il giornalista Felice Manti, Caporedattore Centrale de Il Giornale che da anni segue e si occupa della strage di Erba, e a cui ha persino dedicato uno dei suoi libri più letti e più discussi di questi anni.
di Pino Nano
Mercoledì 14 Febbraio 2024
Roma - 14 feb 2024 (Prima Pagina News)
Uno dei testimoni più iconici del Giornalismo d’Inchiesta di questi anni in Italia è certamente il giornalista Felice Manti, Caporedattore Centrale de Il Giornale che da anni segue e si occupa della strage di Erba, e a cui ha persino dedicato uno dei suoi libri più letti e più discussi di questi anni.
Felice Manti è caratterialmente uno di quei cronisti di razza che non molla mai la preda se non a lavoro chiuso, quando cioè lui si è finalmente convinto della serietà delle sue ricerche e delle prove acquisite a favore della sua tesi. Un numero uno in tutti i sensi sotto questo profilo. Dirgli “bravo” è quasi retorico.

È stato così nel caso della Strage di Erba, lavoro il suo – lo ricordiamo- che ha poi prodotto un libro che alla luce di quello che è avvenuto in questi giorni varrebbe la pena di rileggere di nuovo e daccapo.

“Quando, nel febbraio del 2008, uscì “Il grande abbaglio – controinchiesta sulla strage di Erba”, per l’Italia intera Olindo Romano e Rosa Bazzi erano due mostri. Il libro -ricorda Felice Manti- fu accolto da un diluvio di polemiche. Sui coniugi, che stavano per essere processati, c’erano prove considerate granitiche e questo volume le metteva tutte in discussione: era stato scritto che l’unico superstite della strage avesse riconosciuto subito in Olindo il suo aggressore. Ma non era vero. Era stato detto che c’era una traccia delle vittime sull’auto della coppia che solo loro potevano avere portato. Ma non era vero. Era stato urlato che le loro confessioni fossero dettagliatissime e sovrapponibili. Ma non era vero nemmeno questo”.

Felice Manti in tutti questi anni ha dedicato alla strage di Erba tutte le sue energie, e tutta la sua passione, la tenacia di fare il cronista fino in fondo, una vita di ricerche, di incontri personali, di indagini parallele a quelle della polizia giudiziaria, di raffronti con degli indizi di prova che sembravano all’inizio granitici e quasi sacri, e che alla fine hanno poi prodotto però una verità storica completamente diversa da quella acquisita dai tribunali e dagli inquirenti.

“Troppe volte – riconosce- dietro delle sentenze o delle archiviazioni ci sono indagini pasticciate, omissioni, inquirenti che si prendono libertà che non dovrebbero prendersi eccetera. Non dico altro”.

- Un’analisi pesante la tua, non credi Felice?

“Ne Il grande abbaglio, ti assicuro, chi vorrà davvero informarsi sulla vicenda che vede protagonisti Rosa e Olindo, ne troverà le prove. Leggilo anche tu. Oggi che tanti dubbi sono stati sollevati sulla colpevolezza di Olindo e Rosa e che il dibattito sulla coppia si è riaperto, il libro viene riproposto con alcuni aggiornamenti finali, sulla base delle scoperte fatte da noi sul caso, e credo valga pena di leggerlo fino in fondo”.

Evviva, dunque, il giornalismo di inchiesta, che in questo caso ha prodotto nella vita personale del grande cronista de Il Giornale momenti anche di grande amarezza e di profondo sconforto generale.

“Quando agli inizi del 2008 uscì Il grande abbaglio – controinchiesta sulla strage di Erba, la critica più gentile che ci rivolsero fu che fossimo degli sciacalli. Il caso era già stato dato per chiuso da un anno, con miriadi di speciali televisivi, ospitate tv di avvocati di parti civili, criminologi ed esperti, perfino un libro e una fiction che vedevano Olindo Romano e Rosa Bazzi nei panni dei feroci assassini. E il processo non era ancora cominciato”.

- Cos’è che secondo te mancava in quel puzzle mediatico?

“Vedi, in questo circo mediatico in cui i mostri dovevano solo attendere la condanna, non c’era mai stata una sola finestra per la difesa. Mai. Ma da un paio di mesi, leggendo semplicemente gli atti dell’accusa, avevamo iniziato a scrivere su Il Giornale che le cose non erano esattamente come le avevano raccontate, anche se incredibilmente nessuno sembrava essersene accorto. Era stato detto per un anno che il testimone Mario Frigerio aveva riconosciuto subito in Olindo il suo aggressore. Ma non era vero. Era stato detto per un anno che le confessioni erano precise, concordanti e sovrapponibili, ma non era vero. Era stato detto per un anno che le indagini erano state dettagliatissime, ma non era vero. Era stato detto per un anno che la macchia di DNA sulla Seat della coppia ce l’avevano portata per forza gli imputati, ma non era vero. Era stato detto per un anno che tutte le piste alternative erano state vagliate, ma non era vero nemmeno questo. Era tutto lì, nero su bianco, nei documenti dell’accusa”.

- La tua, e la vostra battaglia, in favore di Rosa e Olindo da quanto tempo va avanti?

“E’ da 17 anni che con i nostri articoli, due libri e un podcast su Youtube teniamo viva la probabile estraneità di Olindo Romano e Rosa Bazzi dalle accuse di aver ucciso quattro persone la notte del’11 dicembre 2006. Presto uscirà un altro libro che ricostruisce tutta la vicenda. Con Edoardo Montolli, uno dei più coraggiosi giornalisti che conosco, ci siamo avvicinati a questa vicenda dopo le prime indagini e gli arresti, quando altri cronisti sembravano disinteressati a quello che stava succedendo”.

- Posso chiederti come parte la vostra inchiesta?

“Guardando i tg abbiamo scoperto che Olindo e Rosa, che tutti davano per colpevoli viste le apparenti prove granitiche (il riconoscimento del testimone oculare, la macchia di sangue, le confessioni dettagliatissime), avevano non solo cambiato legali ma anche strategia, dichiarandosi innocenti e pronti ad affrontare un processo ordinario. Mentre i Ris ammettevano che non c’erano tracce ematiche della coppia sulla scena del delitto né tracce delle vittime a casa loro, dove diranno di essersi cambiati. Troppi fatti che meritavano di essere compresi”.

- Felice, qual è il dato più clamoroso di questa inchiesta?

“A metà ottobre 2007 ho beccato in aereo il legale di Rosa e Olindo, Fabio Schembri, mentre da Milano andavo a un matrimonio a Reggio Calabria. Lo conoscevo, non era uno sprovveduto e non avrebbe mai deciso questa linea difensiva se non avesse avuto prove solide. Mi disse “sono innocenti”, come fanno tutti gli avvocati. Edoardo e io abbiamo voluto vedere le carte. C’erano documenti inediti che sgretolavano le tre prove. Le abbiamo pubblicate sul Giornale, ci abbiamo fatto un libro “Il grande abbaglio”. Poi Edoardo è andato avanti con un’altra pubblicazione, l'Enigma di Erba, ha realizzato uno speciale sul settimanale Oggi, ha scoperto che mancavano delle intercettazioni, che c’erano delle piste mai battute come il traffico di droga. Poi sono arrivate le Iene con Antonino Monteleone, perla rara del giornalismo italiano con cui ho scritto un libro sulla ’ndrangheta nel 2010, che ha raccontato in tv le nostre scoperte”.

- Qual è la lezione che si può trarre da questo vostro lavoro giornalistico?

“Quando ho saputo che il sostituto Pg Cuno Tarfusser, magistrato di indiscutibile valore, aveva deciso di chiedere la revisione del processo dopo aver letto le stesse carte che avevamo ritrovato noi e anche il nostro libro, individuando un articolo del Giornale come possibile nuova prova, ho capito che la giustizia italiana aveva gli anticorpi per riformare sé stessa. Spiace che Tarfusser sia sotto procedimento disciplinare per non aver rispettato un regolamento interno pur di depositare la revisione, sono certo che il Csm lo assolverà”.

- Oggi il tuo lavoro, come quello dei colleghi che hanno lavorato con te, diventa un insegnamento fondamentale per centinaia di altri cronisti italiani impegnati su questi fronti: immagino che tu sia fiero di tutto questo.

“Se da un lato posso dirti di essere fiero del mio lavoro, dall’altro però non posso non riconoscere di avere dentro di me qualche rimpianto”.

- Posso chiederti quale?

“Io sono uno dei tanti ragazzi di Calabria che, dopo averci provato un po’, se ne sono andati. Ho lavorato a Telereggio dal 1994 al 1997, ho fondato il settimanale Le Calabrie nell’estate del 1998 assieme a un manipolo di colleghi eroi, ho provato a fare un'informazione diversa ma non ce l’ho fatta, e un po’ questa cosa mi pesa”.

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