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Nei giorni scorsi, al Teatro Parenti di Milano, quasi per l’avverarsi dei “corsi e ricorsi storici” di Giambattista Vico, si è tornati a parlare di riformismo, un grande tema che si propone dai tempi di Giacomo Matteotti e Filippo Turati.
Nei giorni scorsi, al Teatro Parenti di Milano, quasi per l’avverarsi dei “corsi e ricorsi storici” di Giambattista Vico, si è tornati a parlare di riformismo, un grande tema che si propone dai tempi di Giacomo Matteotti e Filippo Turati.
di Raffaele Malito
Siamo tornati a parlare di una grande questione del pensiero politico che ha animato il primo Novecento all’inizio del fascismo e, poi, brutalmente impedito dalla dittatura. “Crescere” è stato il tema dell’incontro promosso da una nuova componente “riformista” del Partito Democratico che ha visto la presenza di di nomi di peso come Lorenzo Guerini, Pina Picierno, Giorgio Gori, Lia Quartapelle. Filippo Sensi e Graziano Del Rio, con l’intervento del sindaco Beppe Sala a chiudere i lavori. Insomma un manifesto che nelle intenzioni dei promotori dovrebbe ripartire dalla priorità delle priorità per rendere l’Italia “più giusta, più libera, più responsabile”. Si potrebbe dire che si sono ritrovati insieme dirigenti che avevano partecipato, trovandosi a casa loro, alla stagione di Renzi e, quando la stella del leader fiorentino si è spenta, sono rimasti nel PD.
Ma di quale riformismo si è discusso?
Non si vuole minacciare la segreteria di Elly Schlein né, tantomeno, minacciare una scissione. Si vuole, in buona sostanza, correggere le posizioni del PD in politica estera ed economica, riuscire a interloquire con il ceto medio, presentarsi, alle prossime elezioni con un profilo che riecheggi quello dell’Ulivo di Romano Prodi; aprire le liste a candidature che non siano espressione di un estremismo parolaio, quelle che i detrattori della segreteria assimilano a un’assemblea studentesca del ’68, insomma a dovuta distanza dall’ AVS di Fratojanni e Bonelli e dalle sortite di Conte. Queste le premesse.
Ma quale sarà la rotta?
Il sentiero non conflittuale è un auspicio. Una questione che vale anche per Renzi e la sua Casa Riformista: l’ex premier a Milano non è andato, un segno che non intende mescolare il suo riformismo con quello di chi, come Guerini e Del Rio, è rimasto nel Pd. Trattare con Schlein, proporre condizioni per un’alleanza che sposti il Pd verso il Centro, lontano da Fratoianni, Bonelli e dai 5Stelle. Il progetto, alla lunga, è dimostrare che la presenza nel centro-sinistra di una corrente non ideologica, capace di moderare toni e messaggi di una coalizione che appare in apparenza parte già battuta, è cruciale. Si avverte il bisogno di abbassare il tasso di demagogia e innalzare, al contrario, l’indice della serietà e della chiarezza nelle scelte di politica estera ed economica. Una prospettiva che sarebbe agevolata dal cambio della legge elettorale in senso proporzionale: i partiti medio-piccoli avrebbero condizioni più favorevoli e i riformisti avrebbero, così, le carte da mettere sul tavolo del confronto e offrire idee e prospettive che la politica, vuota di contenuti, non riesce a suggerire.
Ma il confronto di Milano, oltre che calato dall’alto, rischia di essere un “già visto”: spinto dalle recriminazioni per il venire meno del pragmatismo “riformista” che una parte del Pd aveva affidato a Bonaccini, in fase congressuale, non è andato al fondo delle ragioni della sconfitta del 2022: cioè, un partito poco diretto, poco chiaro che aveva portato al governo ricette nel nome della responsabilità e del pragmatismo liberale che si sono tradotti in elitarismo rigorista, scollato dagli interessi legittimi di interi gruppi sociali, di pezzi di società che sono, sempre, stati la riserva della partecipazione e del consenso del centrosinistra. E’ quel che è accaduto nella scuola: i docenti accusati di immobilismo o conservatorismo di categoria difendevano, in realtà, la scuola democratica, il valore civile della formazione del cittadino, perno della nostra Repubblica. Si è passati alle proposte liberali fondate sulla competizione, la precarietà, lontane dallo spirito della scuola pubblica come ascensore sociale e laboratorio di cittadinanza e hanno preparato il terreno per il governo Meloni che sta gettando all’indietro decenni di visioni sulla scuola. Un elettorato, dunque, che si è sentito tradito nelle certezze di consolidati approdi culturali e sociali.
Nel confronto di Milano le proposte sono venute dall’alto, senza radicamento, si è andati dal pragmatismo al moderato, dal liberale al liberista, senza affrontare il cambiamento di sentimenti, di desideri e bisogni, in questo momento, negli anni che viviamo. E non è stato nemmeno approfondito che cosa s’intenda per riformismo: c’è un riformismo di destra che è ordoliberista, gerarchico, c’è un riformismo liberale, identificabile con Renzi, in parte Gentiloni, Draghi.C’è un riformismo di sinistra, radicale ma non estremista, che parte dal basso, redistribuisce, include e che dovrebbe essere alla base di un nuovo centro-sinistra.
Destra, Sinistra e Centro non sono etichette del Novecento, come tentava di dirci il M5S di Grillo, sono visioni di società. E ciascuna di queste visioni propone riforme per adeguarle alla propria proposta politica. Se la Destra ha mostrato con chiarezza le sue riforme, se il Centro moderato o liberale ha mostrato, alla prova dei governi, le sue scelte, è il momento della chiarezza, saggezza e del coraggio di definire un riformismo di sinistra. Dunque è il tempo di definire un riformismo di sinistra per rispondere al Paese reale.
Queste risposte non sono venute dall’incontro di Milano: Guerini e gli altri hanno parlato di crescita come panacea senza chiedersi chi ne beneficerà: i ceti popolari o le categorie delle èlite urbane. Si è parlato di equità sociale e di lavoro di qualità ma con accenti di liberismo temperato più che di impegno per la redistribuzione dei vantaggi.
Dunque l’assemblea milanese è stato un ennesimo tentativo di riposizionare il PD verso un centrosinistra anemico, incapace di contrastare le destre non con idee audaci ma con un compromesso perpetuo.
Siamo ben lontani dal riformismo che ha connotato, dal dopoguerra in poi con grandi riforme, economiche,sociali e culturali, l’Italia: nel 1962, un anno prima dell’ingresso del Psi nella coalizione di governo del centro- sinistra, il leader socialista Pietro Nenni e, poi, Riccardo Lombardi posero come condizione pregiudiziale che si affrontasse la grande questione energetica con la nazionalizzazione delle oltre trenta grandi aziende e gruppi che gestivano un settore cruciale per l’economia del Paese ma anche per la civiltà degli italiani. Un anno dopo, con l’ingresso nel Governo dei socialisti, nasceva l’Enel. Era l’inizio di una vera propria nuova era nella fruizione dell’energia elettrica nelle case degli italiani e del sistema economico, più in generale.
L’Enel,nel tempo, sarebbe diventato un colosso economico-finanziario-civile-culturale in grado di contrastare i super poteri delle cosiddette “Sette Sorelle” che, in campo energetico, dominavano l’economia mondiale. Cominciava così il tempo del riformismo reale fatto di riforme che incidevano, nel profondo, nella società italiana. E’ un riformismo di sinistra sociale e civile radicale ma non estremista che si è realizzato nelle grandi riforme socialiste del Novecento che in troppi vogliono dimenticare. Quelle che, a metà Ottocento e negli anni 80, hanno costruito l’Italia moderna con scelte decise e coraggiose, favorendo vantaggi sociali chiari e un’impronta democratica profonda: lo Statuto di lavoratori, nel 1970, concepito dal ministro del lavoro, il socialista Giacomo Brodolini e scritto dal giuslavorista Gino Giugni: un’autentica rivoluzione che ha garantito tutele contro i licenziamenti arbitrari, libertà sindacale e parità in fabbrica, trasformando il rapporto tra capitale e lavoro. E, poi, il Servizio Sanitario Nazionale del 1978, legge firmata dal ministro Tina Anselmi ma il cui “padre” fu il PSI di Bettino Craxi che vincolò il sostegno al governo DC sull’approvazione della riforma facendo passare l’Italia da un sistema, corporativo e frammentato, corporativo e frammentato, a una copertura universale e gratuita che ha salvato milioni di famiglie dalla miseria sanitaria, quella che rischiamo, nuovamente, adesso.
E, ancora, la Riforma del Diritto di Famiglia del 1975, spinta dal Psi con figure come Lorenza Carlassare e Mauro Mellini: addio alla potestà maritale, al delitto d’onore e alla subordinazione delle donne, per una parità che ha aperto la porta all’emancipazione di genere. Non erano “riforme di salotto”: erano atti radicali che implicavano rotture con il passato e investimenti coraggiosi in diritti collettivi. Il Psi, spesso con la DC e il PCI, ha dimostrato che il riformismo di centrosinistra può essere egualitario, radicale, senza essere eversivo.
Una grande riforma che, oggi, il terribile fenomeno, diffuso oltre misura, del femminicidio sembra aver messo in discussione richiamando alle responsabilità l’attuale governo e le sue istituzioni.
E nella scuola?
La Media Unica del 1962, imposta dal Psi con Tristano Codignola ha abbattuto il dualismo classista tra “figli di operai” e “figli di notabili”, portando l’obbligo fino a 14 anni per il 90% dei ragazzi. E, poi, i Decreti Delegati del 1974, sotto il ministro socialista Franco Malfatti, che hanno democratizzato la gestione scolastica con consigli paritetici di docenti, genitori e studenti. Le leggi istitutive dei nidi (promotori i socialisti Tullia Romagnoli Carrettoni, Luisa Lajolo e Giacomo Mancini, nel 1971, nel governo Colombo, e, del tempo pieno, nel 1974, promosso dal socialista Mario D’Agata nel IV governo Moro, inserito, come tema rilevante, nel patto di consultazione con la DC.
Si è trattato di riforme radicali, certamente di sinistra, che i governi DC hanno accolto, a volte dopo vere e proprie imposizioni, che hanno cambiato la condizione socio-culturale ed economica di milioni di italiani.
Quel solco, quell’impronta radicale e sociale del riformismo di sinistra, deve essere ripreso e aggiornato, cancellando le timidezze mostrate nelle riforme sociali in nome di un rigore di stampo liberista.
Quale riformismo di sinistra oggi?
Nell’elaborazione che si sta svolgendo, in sede teorica e nelle grandi mobilitazioni, le prospettive che s’intrecciano sono: l’economa solidale, la riflessione femminista e il nuovo impegno dei giovani. Da qui il Pd dovrebbe far partire il progetto di una nuova fase che punti sull’inclusione, la solidarietà e la pace, temi non di ingenui idealisti, che hanno premesse culturali e teoriche ma anche ricadute pragmatiche e necessità economiche. Dunque, una visione collettiva dove i diritti sociali non vengono compressi dai vincoli di bilancio ed espansi, al contrario, nella direzione della crescita equa. Economia solidale si traduce anche in educazione e scuola solidale che non vuol dire meno rigorosa ma più responsabile e attenta alle sfide culturali, sociali e intellettuali dell’oggi, in cui il fine sia la persona. Non più privatizzazioni selvagge o precarietà ma un New Deal verde e sociale. Quindi investimenti massicci in transizione ecologica che creino un lavoro dignitoso, come cooperative energetiche comunitari e filiere agricole sostenibili, protezione dei salari dall’inflazione e, perché no?, una patrimoniale per finanziare un Welfare espansivo: asili nido per tutte le famiglie, come sostenne il Psi negli anni ’70, estesi a una cura collettiva in grado di liberare le donne dal doppio incarico di madre e lavoratrice. E, poi, la questione femminile: siamo il Paese, in Europa, in cui le donne lavorano meno e fanno meno figli: ripartire dalla riforma del ’75 per andare oltre verso salari minimi uguali per genere e settore, nidi diffusi e gratuiti, congedi parentali condivisi, un piano nazionale contro la disparità salariale. Con politiche che smantellino la violenza di genere non solo repressivamente ma con riforme strutturali: il femminismo chiede di rendere il Pd e il centro sinistra un luogo che dia voce alle donne integrando il tema della cura e della loro difesa come valore economico centrale. Questo è il riformismo di sinistra con il quale deve misurarsi il PD. E, poi, il grande tema delle nuove generazioni a cui bisogna dare ascolto e voce: riprendendo l’integrazione scolastica dei disabili del 1977, ancora una volta spinta dal Psi, occorre estendere diritti universali: formazione gratuita fino a 25 anni con l’attenzione rivolta alle competenze digitali e civiche ed educazione al rispetto sanando la biforcazione tra saperi e cultura teorica e saperi e cultura pratica. Un servizio civile che formi alla solidarietà contro le guerre, le disuguaglianze e il razzismo che ispiri alla solidarietà: cercare modi per dare voce a chi erediterà il futuro, compreso il voto a 16 anni.
Sono elementi, economia solidale, femminismo, impegno giovanile che possono alimentare e dare nuova vita a una visione politica chiara, ispirata al riformismo nobile del Novecento, socialista nel suo significato missionario. La questione, dunque, è centrata su questo interrogativo: il PD saprà riappropriarsi di un riformismo radicale che non si ponga solo l’obbligo di reagire, più o meno risolutivamente, alle derive delle destre, ma proporre un’alternativa attraente in termini di nobili visioni, di riforme, di un programma che riaccenda la voglia di partecipazione, soprattutto dei giovani, alle grandi scelte politiche che portino anche vantaggi chiari, come è accaduto con le riforme socialiste del Novecento: un reddito di dignità che integri lavoro e cura, una difesa europea per la pace condivisa, scuole del futuro democratiche che insegnino la solidarietà digitale.
L’incontro di Milano si è fermato ai risentimenti per le difficili, non condivise scelte della segreteria del Pd, dal bisogno di uscire dalle secche di un inseguimento delle derive meloniane, dalle miopie delle logiche correntizie e dei gruppi di potere, dalle difficoltà o incapacità di offrire agli italiani una visione di grande respiro che releghi il governo delle destre al suo ruolo di retroguardia e di difesa di interessi consolidati che impediscono i grandi cambiamenti sociali, culturali, politici. Resta il grande interrogativo, al momento irrisolto: saprà il PD- o, meglio, le sue componenti che avvertono l’obbligo di una nuova stagione, di una nuova visione politica- ridare nuova vita e un nuovo significato alla parola riformismo in grado, come è stato nel passato, di riabbracciare un radicalismo sociale che sappia parlare all’Italia profonda. E’ accaduto, potrebbe ripetersi.
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