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Scorrono le vite di improbabili personaggi, maschili e femminili, che del loro corpo hanno fatto fettine di godimento per gli altri un tanto al chilo, e delle loro esistenze quotidiane un prolungamento dei diktat di un perverso mercato che cerca continue titillazioni, scariche elettriche, novità, assuefazioni clientelari.
Vediamo la fetish-star che si vende sul web di tutto, video e foto dei propri piedi che sguazzano nella porporina, di lei che addenta un panino, o starnutisce, i residui granulari delle pedicure, i perizomi usati, qualche scampolo di finti orgasmi a letto col marito, complice in tutto, ma troppo stanco la sera per fare con lei il filmino di un amplesso real. Vediamo la prostituta tettona e agée che si è inventata, oltre al classico accoppiamento, l’”allattamento” per gli uomini adulti, potendo contare ancora su una certa dose di siero che le fuoriesce dai capezzoli.
Vediamo soprattutto il giovane gigolò, intorno ai quaranta, elegante, ammiccante, in pose da Miami Vice sui suoi profili social, che accontenta con savoir fare signore ricche e annoiate, salvo poi prendere questo sex job per una vera e propria carriera dove si inseguono frustrazioni sui mancati introiti e, viceversa, la somma letizia di aver raggiunto il tetto finanziario giusto per comprare la casa alla madre, che sa tutto e lo addestra moralmente nella sua crescita professionale…
Nonostante serpeggi nel documentario della Vargas un tono enfatico ed entusiastico – della serie: guardate il postmoderno come incendia i nostri istinti e corrobora i nostri patrimoni -, pure si avverte nelle varie confessioni un mesto esilio da ogni radice autentica di rapporti e legami: il marito incredulo che fa da comparsa, la madre compiacente, la stanchezza a fine giornata dopo tante mutande abbassate, l’inventarsi sempre nuove zone della propria pelle da mettere sotto vuoto o lancette del proprio tempo libero da retribuire a cottimo, la rabbia per non essere stato sufficientemente finto e attoriale da abbassare le soglie di resistenza del potenziale compratore di performance gaudenti.
Un’epitome perfetta per Jean-Claude Michéa e il suo bellissimo Il vicolo cieco dell’economia (elèuthera) laddove il filosofo francese esprime il declino antropologico totale figlio di una Ragione illuminista arroccata e implosa sul concetto di commercial society, cioè di una concordia e di una chiarezza valoriale ottenute soltanto attraverso la transattiva composizione di interessi parziali e utilitaristici di singoli ego che si specchiano in se stessi – l’”atomizzazione” e la “monadizzazione” dei soggetti che batte ogni assetto comunitario o, peggio, lo sussume ai suoi calcoli monetari e consociativi/corruttivi.
Un liberalismo che si arroga il diritto di prendere per “leggi naturali” quelle dell’economia e della razionalità scientifica applicata al mondo della produzione, salvo scadere nel baratro dello sfruttamento, della disuguaglianza e di una retorica dell’uomo come felice contrattatore, mentre è solo vittima infelice di “una serie di rotture e di traslochi” perché nulla delle appartenenze, dei territori di nascita, degli aspetti domiciliari e delle parentele possa impedire l’orbita dei suoi affari e la spinta alla rendicontazione totale dei suoi respiri e delle sue aspirazioni.
L’utopia capitalistica e la dinamica feroce della concorrenza assoluta “obbligano gradualmente ogni persona, quali che siano le sue intenzioni o la sua dichiarata sensibilità a funzionare come un meccanismo di supporto, un semplice ingranaggio della macchina economica, spogliato di ogni stato d’animo e incapace di compassione”. Un capitalismo diventato sempre più emotivo e sub-cognitivo, “incantatore” per dirla alla Lipovetsky, e sempre più fondato sui “nuovi mezzi di modifica dei comportamenti”, per dirla alla Zuboff, due autori che il filosofo cattolico Dario Edoardo Viganò cita in un coraggioso pamphlet info-pessimista, L’illusione di un mondo interconnesso (Edizioni Dehoniane), dal quale si evince che negli ultimi anni sono stati forse i papi, Bergoglio in testa a tutti, a suonare la sveglia al mondo laico sulle derive patologiche delle tecnologie ubiquitarie di informazione e comunicazione, piuttosto che il contrario.
L’alternativa per Michéa a questa forra di contraddizioni irrisolte a livello sistemico – anzi, cristallizzate da una becera sinistra disinvoltamente acritica bollita sterile e complice dei plutocrati illiberali (qualche riferimento al nostro PD del monofacciale Letta, che ha appoggiato prima tante misure anticostituzionali ancora vigenti in materia di Covid e poi si è detto pronto ad appoggiare l’invio di armi ai resistenti ucraini, immemore di pacifismo ed ecomarxismo?) - e a un soffocante intreccio di convulsioni psicologiche, domestiche e tributarie del singolo, sarebbe un tuffo nell’ossigenante pensiero orwelliano della common decency, ovvero quelle regole non scritte di buon vicinato, solidarietà, comunione di intenti, aiuto di gruppo (non clanico e di loggia), socializzazione locale, empatia e mutuo soccorso che l’average man, il cittadino medio, può sempre sperare di riattuare per rallentare il moto perpetuo browniano della diffidenza e del ripudio reciproci, e per recuperare un senso della relazione che risulta vieppiù spettrale nei caveau delle banche, viste come tempio della contemporaneità, e nelle salmastre realtà di violenza e profitto che l’uomo esercita sul simile, danno collaterale di una malinterpretata strategia di compensazione della malvagità naturale studiata e infilzata concettualmente per sempre dall’”homo homini lupus” di Hobbes.
Insomma, nasciamo cattivi, egoriferiti e diffidenti, ma non è certo il libero scambio delle merci a infilarci dritti dritti sul solco del Progresso e della Rinascita. Naufraga del tutto una idea di Comune, soprattutto in un’epoca di ibridazioni di forme e di assottigliamento di soglie simboliche fra ciò che siamo intimamente e ciò che siamo più o meno forzatamente indotti ad essere.
E’ quello che il sociologo statunitense Jay David Bolter chiama – come il suo omonimo testo più famoso - Plenitudine digitale (Edizioni minimum fax), ovvero uno stato di saturazione dei nostri spazi di percezione, mediazione e relazione, che sfugge a un governo completo e autonomo da parte del soggetto.
In questo regno del middle, dell’infra, ben tratteggiato da Bolter, dove tutto è invaso, ricolorato e ridefinito da elementi simili o di altre categorie e provenienze (arte, cinema, musica caratterizzate ormai permanentemente dal remix e dal flusso), ognuno si trova immerso – e confortato – in una camera ecoica fra simili, in una sorta di sub-urbanità immateriale fatta di ecosfere di condivisione e partecipazione che hanno abdicato a narrazioni collettive e paradigmi assoluti e centralizzati ormai fuori uso, fuori perno, fuori dalla Storia.
In questa landa di “creatività dal blando riconoscimento universale” dove pullulano diversità, ma dove certezze e principi etici inaridiscono come in pieno deserto, vigono i loop sensoriali, le proceduralità, i pattern studiati a tavolino, le sinergie strettissime e senza scambi fra ciò che detta la macchina e ciò che fa il navigante del virtuale, sempre più gamer e meno regista.
Seguendo Jenkins, Bolter ci parla di mini-associazioni di individui che si ritrovano dentro percorsi agonistici, collezioni di oggetti e di testi, risultati e record, affiliazioni volontarie e intraprese occasionali e ritornanti, sebbene proprio alla fine l’autore riconosca che va bene perdersi in videogame e brani rap, film senza catarsi e installazioni dense di mood, ma “nel regno della politica, invece, non possiamo limitarci a dichiararci d’accordo o a dissentire, perché le decisioni devono essere prese collettivamente. I nostri sistemi democratici si fondano sull’assunto che tutti i membri della società siano d’accordo sullo scopo e sulla funzione del discorso politico”.
Ecco, una meravigliosa lezione di etica della politica per i Draghi, gli ultimi fantasmi della Sinistra, e nelle ultime settimane per i Putin, tutti interessati, mutatis mutandis, da protervia extraparlamentare, inanità post-ideologica, assenza di grandi progetti di civiltà.
I carri armati e gli stupri di massa sono altro dalle nostre stanze decisionali, certo, ma l’animus di base spesso è lo stesso quando gli altri li si guarda come fantocci, ostacoli, somme di dati. Plenitudine non fa rima con beatitudine.