Ombre nere su “Ombre rosse”: Il doppiaggio fascista del capolavoro di John Ford secondo Maurizio Pizzuto

Riproponiamo un articolo del critico cinematografico Antonio Ferraro per gentile concessione di Sipario.it.  Maurizio Pizzuto esplora il primo doppiaggio italiano di “Ombre rosse” e le sue implicazioni politiche e culturali.

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Venerdì 05 Luglio 2024
Roma - 05 lug 2024 (Prima Pagina News)

Riproponiamo un articolo del critico cinematografico Antonio Ferraro per gentile concessione di Sipario.it.  Maurizio Pizzuto esplora il primo doppiaggio italiano di “Ombre rosse” e le sue implicazioni politiche e culturali.

Maurizio Pizzuto, nel suo piccolo ma esaustivo saggio, esplora con grande interesse il primo doppiaggio italiano di “Ombre rosse” di John Ford, distribuito in Italia pochi mesi dopo l’uscita americana del 1939.

 È curioso notare che già all’epoca, intellettuali del cinema come Chiarini e Antonioni avevano acceso un dibattito (addirittura un referendum) sull'opportunità del doppiaggio, che loro contestavano. Tuttavia, era evidente che i film stranieri non doppiati avrebbero perso qualsiasi appeal commerciale, e il dibattito si concluse rapidamente.

Ancora oggi, il tema del doppiaggio si ripropone, ma va ricordato che il doppiaggio italiano è stato a lungo considerato uno dei migliori al mondo, tanto da meritarsi l’appellativo di “doppiaggio artistico”.

La scelta di Pizzuto di analizzare il primo doppiaggio di “Ombre rosse” (quello che conosciamo noi è di dieci anni successivo) evidenzia lo spirito con cui il regime fascista selezionava, doppiava e distribuiva i film stranieri, aiutandoci a comprendere molte dinamiche di quel periodo. Innanzitutto, la scelta del film: già considerato un capolavoro, piacque particolarmente a Mussolini, che apprezzava i film di Stanlio e Ollio (da lui chiamati “Grasso e il Magro”) e i western.

È probabile che, con un ridicolo fraintendimento, i selezionatori abbiano visto nella “conquista del West” un parallelo con le nostre vicende coloniali.

Ma l’epopea pionieristica americana è unica nel suo genere: persone di diversa provenienza hanno trasformato una terra selvaggia e ostile nel Paese più potente degli ultimi due secoli. John Ford, pur non essendo universalmente considerato il miglior regista western (come evidenziato dalle riserve di Tarantino), è certamente un maestro nel raccontare queste vicende e lo spirito che le animava.

Basta pensare alla scena degli uomini accampati intorno al fuoco dopo una dura giornata di lavoro in “Cavallo d’acciaio” (1924), dove emerge un forte senso di determinazione e consapevolezza di star compiendo qualcosa di grande. In questo, Ford si distingue dal poeta Walt Whitman, che talvolta si lascia trasportare dall’idillio tra uomo e natura. Ford, invece, sottolinea sempre la durezza delle conquiste, ottenute con fatica e rischio.

Passando al doppiaggio, Pizzuto segnala che alcune imprecisioni possono derivare dall’assenza di uno script, con un adattamento basato sul diretto ascolto del film.

Ci sono poi le approssimazioni di una tecnica ancora non perfettamente matura e i pasticci del regime con i nomi stranieri: i nomi di battesimo vengono talora italianizzati, i cognomi pronunciati con incertezza. 

Ma la vera censura, nota Pizzuto, riguarda le situazioni lievemente scabrose e la complessità dei personaggi. Il postiglione, per esempio, ha una voce stentorea solo quando guida i cavalli, mentre nell’originale mantiene lo stesso tono anche quando parla con gli altri, perdendo così l’effetto comico. Molte altre complessità dei protagonisti vengono sacrificate per lasciare spazio ai più rassicuranti toni del melò e dell’avventura.

Dove Ford disegna figure umane e disparate, accomunate da un destino di grandezza, il doppiaggio fascista si concentra sugli scontri a fuoco e sui grandi eventi della vita (nascita, morte, amore, vendetta), parzialmente disumanizzando i personaggi.

Dal doppiaggio di un film emerge così la natura politica di due realtà divergenti: da un lato, la nascita di una nazione e il suo complesso divenire, dall’altro, l’immagine illusoria e propagandistica di un’Italia velleitaria, con coloni per caso spinti, come scriverà Gadda in “Eros e Priapo”, dalla “Boce del Buce”. 

Antonio Ferraro


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