Derivazioni e derive della giustizia riparativa

La giustizia riparativa si presenta come la risposta più adeguata all’evoluzione sociale e individuale del nostro tempo, in cui l’essere umano cerca il riconoscimento dei propri sentimenti e la cura delle proprie relazioni.

di Sara Bruni
Lunedì 30 Settembre 2024
Roma - 30 set 2024 ()

La giustizia riparativa si presenta come la risposta più adeguata all’evoluzione sociale e individuale del nostro tempo, in cui l’essere umano cerca il riconoscimento dei propri sentimenti e la cura delle proprie relazioni.

La chiave giuridica post-moderna altro non è che l’espressione della dimensione personalistica individuale e sociale in cui l’uomo chiede un costante riconoscimento degli aspetti emozionali e sentimentali. La cultura muta unitamente alle esigenze di conoscenza della psiche che, oggi, stanno spingendo l’essere umano verso la cura del proprio sentire.

Il saper stare in relazione con l’altro assume carattere quasi emergenziale.

L’eco delle bombe e la desertificazione conseguente aveva imposto una ricostruzione dei semplici passi vitali partendo dai nuclei originari: religione, famiglia e lavoro. In seguito, quando la spinta propulsiva agitava le menti e alimentava le pulsioni, nel momento in cui venivano infranti gli argini e interrotti i binari di un’esistenza che non aveva altro dovere che proseguire retta nella linearità temporale, l’essere umano inizia a nutrire la necessità di porsi interrogativi rispetto all’altro.

La dimensione sociale esibita oramai quale modello di riconoscimento, quasi quale tessera identitaria di appartenenza a qualcuno o qualcosa, ha, inaspettatamente, aperto ad una riflessione su sé. Emerge quanto la salute della propria mente sia pioniera del saper stare in relazione e in rapporto con l’altro.

In tale cornice storico-sociale, la giustizia riparativa trova perfetta coerenza anche nel principio costituzionale di cui all’art. 3. Lo Stato si fa garante e promotore del pieno sviluppo dell’esistenza umana eliminando qualsiasi fattore che contrasti ed ostacoli la pari dignità dell’uomo. Uno dei maggiori problemi che vengono quotidianamente riscontrati dagli operatori del diritto è indubbiamente la tutela effettiva della persona offesa dal reato. Come una macchina il cui motore viene apparentemente riparato ma che dopo quasi un chilometro arresta la sua corsa.

La giustizia punitiva si arresta perché il crimine oggi assume una connotazione che esula dall’offesa al bene giuridico tutelato (che sia il patrimonio, la pubblica amministrazione o la persona) richiedendo attenzione soprattutto la sfera intima della persona che subisce un danno a prescindere. Vieppiù che il controllo della criminalità risulta fallace sia dal puto di vista preventivo che nell’esecuzione della pena e ciò, anche in quanto, la riparazione delle offese del reato non forniscono aiuto alla vittima alle ferite psicologiche generate.

Un risarcimento in denaro può, indubbiamente, in alcuni casi essere un valido strumento di supporto, ma di certo non lenirà la sconfitta e la frustrazione ingenerata nella vittima che dovrà superare il trauma e ricostruire la propria vita.

Ed ecco che la dimensione relazionale, in un’ottica di dialogo che possa sortire effetti solidi e durevoli, si approda all’idea che il triangolo autore-vittima-collettività, secondo l’art. 43 del decreto lgs. 150/22 i programmi di giustizia riparativa devono “tendere a promuovere il riconoscimento della vittima del reato, la responsabilizzazione della persona indicata come autore dell’offesa e la ricostruzione dei legami con la comunità”.

 

Appare ovvio che occorre distinguere la tipologia di reato e di offesa perpetrata: allontanare il male conforta e costituisce indubbiamente un elemento irrinunciabile della pena.

Ciò che è emerso, di contro, è il passaggio successivo ovvero fornire strumenti alla vittima e alla collettività di elaborare le conseguenze dannose del reato.

La giustizia riparativa, di matrice consensuale attivabile su richiesta dell’imputato/indagato o della vittima,   guarda al futuro in un’ottica durevole e progettuale: il male con il quale si è entrati in contatto, diventa terreno di confronto ed avvicinamento per comprendere le ragioni nel dualismo. Diviene così necessario che i due modelli di giustizia, punitiva e riparativa, coesistano.

Infatti, in caso di mancato raggiungimento di un esito riparativo, o il mancato svolgimento del programma o la sua interruzione non producono effetti sfavorevoli nei confronti della persona indicata come autore dell’offesa.

Appare in ogni caso obbligatoria una considerazione: la vittima subisce anche in tale circostanza la scelta dell’autore. Senza il consenso della persona offesa, il procedimento riparativo può aver lugo, comunque, grazie alle figure indirette o surrogate e dunque, vien da se, che il programma riparativo attato anche nell’interesse della vittima non verrebbe svolto, come richiesto dalla normativa europea. Il tempo condiziona la scelta e non può invadere la sfera di libertà dell’altro. E’ un po' come dire: ti maltratto e ti stalkerizzo ma ora ho necessità del tuo perdono quindi se tu non riesci a farlo è evidente che stia strumentalizzando la tua condizione di vittima (vittimizzazione secondaria).

Interpellare previamente la vittima dovrebbe essere un diritto inviolabile: accettare, comprendere e rispettare le tempistiche anche di costei dovrebbe essere un paradigma sacro. Il kairos, il tempo giusto, non può non essere preso in considerazione ne tantomeno può essere asfaltato con le vittime aspecifiche causando ciò un’ulteriore lesione dei diritti della persona offesa.

Obbligare qualcuno a compiere un percorso introspettivo che lo conduca alla riparazione e alla ricostituzione di un rapporto civile con la vittima è una falsa illusione. Promuovere uno sconto di pena a fronte di un complesso viaggio alle porte del sé è ai limiti del surreale, quando, spesso, anche dopo anni di terapia intrapresa di propria sponte il soggetto non arriva si rifiuta e maschera con diverse vesti la difficoltà.

Sarebbe lodevole e premiante che la riparazione del danno, nell’aspetto psicologico e lesivo dell’integrità psichica della persona, avvenisse successivamente all’esecuzione della pena (o dopo la condanna) durante la quale fruire di programmi terapeutici volti al contatto con la propria sfera occulta, costituendo solo in tale circostanza l’effettiva espressione del bisogno di “scusarsi” per il male generato e di elaborazione di una possibile e reale relazione funzionale con la vittima.


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