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La Corte d'Assise di Milano ha confermato l'ergastolo ma non la premeditazione.
La Corte d'Assise di Milano ha confermato l'ergastolo ma non la premeditazione.
"Non vi sono prove che consentano di retrodatare il proposito" di Alessandro Impagnatiello di uccidere Giulia Tramontano "rispetto al giorno" dell'accoltellamento. La somministrazione del veleno per topi nei mesi precedenti l'omicidio avrebbe avuto lo scopo di provocare un aborto spontaneo e dare "una drastica soluzione" al figlio che Giulia aspettava e che lui "identificava come il problema per la sua carriera, per la sua vita".
Queste sono le motivazioni con cui la Corte d'Assise di Milano ha confermato l'ergastolo per l'ex barman, senza, però, riconoscere la premeditazione.
L'avvelenamento è avvenuto per ottenere "l'aborto del feto" e non "l'omicidio della madre".
Stando ai giudici popolari, diretti dalla presidente Ivana Caputo e la giudice a latere Franca Anelli, la volontà di uccidere Giulia, che era al settimo mese di gravidanza, sarebbe maturata "non prima" delle 17 di quel sabato 27 maggio 2023, quando lui fuggì dal suo posto di lavoro per non incontrare Giulia e l'amante insieme.
L'idea dell'omicidio "insorge implacabile quando comprende e realizza di non essere riuscito a dissuadere la sua compagna dall'incontrarsi proprio al bar, in quel suo prezioso posto di lavoro che - come la stessa Giulia gli aveva lasciato intendere - forse era già andato perduto" con il messaggio "io sono davanti al tuo lavoro che credo che da oggi non lo sarà mai più".
"E' irrilevante conoscere quali azioni siano state compiute in quelle due ore di attesa" dall'imputato, "se abbia rimosso il tappeto, fatto spazio tra i mobili oppure coperto il divano con un telo impermeabile", come ipotizzato durante i due processi, ma mai dimostrato definitivamente.
Per poter contestare la "premeditazione" conta solo "ciò che albergava nel suo animo" in quel lasso di tempo. La ragazza, concludono i giudici, "non poteva sapere e, del resto, nessuno poteva metterla in guardia" sul fatto che "in quel momento la sua condanna a morte era stata decretata".
In più, Impagnatiello "non si è limitato ad uccidere" la compagna "attraverso il metodo che riteneva più immediato ed efficace" ma "ha voluto dare sfogo ad altro: c'era una furia rabbiosa da scaricare", una "punizione da infliggere e una frustrazione da canalizzare in energia violenta e omicida".
Delle 37 coltellate inflitte, 11 sono state date quando lei era ancora viva, mentre altre 24 hanno provocato "lesioni cervicali". "Il numero e la reiterazione dei colpi non sono, in questo caso, una superflua, macabra e stilistica enumerazione". I giudici dell'Assise parlano di "dolo di proposito", in cui Impagnatiello ha avuto il tempo di "scegliere, tra le tante armi improprie e corpi contundenti che in tutti gli ambienti domestici è agevole reperire, lo strumento da impiegare per uccidere" e anche di decidere "come, quando e dove colpire la vittima" colta di "sorpresa", alle spalle, in modo da "impedire ogni difesa".