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Ancora un evento letterario al Circolo degli Esteri, e ancora una chicca editoriale da Carlo Giacobbe, storico giornalista globetrotter dell’ANSA ed esperto come pochi di problemi mediorientali, che questa volta e senza nessuna reticenza dedica il suo ultimo lavoro “Il Sogno di Sion” (Eurinstant, 300 pag) alla memoria di Yitzhak Rabin, che vuol dire alla terra e al popolo di Israele.
Un libro di una forza narrativa come pochi, un saggio da cui viene fuori per intero l’anima fiera del popolo israeliano e in cui si coglie la vera chiave di lettura dei conflitti sanguinari in corso in quel Paese da troppi anni ormai. Quasi un romanzo, perché così sembra, che Carlo Giacobbe ha scritto perché in quelle terre ci ha vissuto, ci ha lavorato, e in quelle terre ha lasciato forse un pezzo della sua anima.
Giornalista, inviato speciale nelle aree più difficili del mondo, l’autore trova per raccontarsi una formula assolutamente inedita rispetto alla tradizione editoriale italiana.
“Mi divido tra Roma, dove sono nato, e Lisbona, dove potrei essere nato in una vita precedente. Ho molte passioni, non tutte confessabili e alcune non più praticabili, ma che mai mi sentirei di ripudiare. In cima a tutte c'è la musica, senza la quale per me l'esistenza non avrebbe senso. Non suono alcuno strumento, ma ho studiato canto classico (da basso) anche se ormai mi dedico al pop tradizionale, nei repertori romano, napoletano e siciliano, e al Fado, nella variante solo maschile specifica di Coimbra. Al centro dei miei interessi ci sono anche la letteratura e le lingue. Ne conosco bene cinque e ho vari gradi di dimestichezza con altrettante, tra vive, morte e, temo, moribonde. Ho praticato vari generi di scrittura; soprattutto, ma non solo, saggi e traduzioni dall'inglese e dal portoghese. Per cinque anni ho insegnato letteratura e cultura dei Paesi lusofoni alla Sapienza, mia antica alma mater. Prima di lasciare, con largo anticipo, l'Ansa e il giornalismo attivo, da caporedattore, ho vissuto come corrispondente e inviato in Egitto, Stati Uniti, Canada, Portogallo, Israele e Messico. Ho appena pubblicato “100 sonétti ‘n po’ scorètti", una raccolta di versi romaneschi. Sono sposato da 40 anni con Claudia e insieme abbiamo generato Viola e Giulio”.
È il cronista che diventa per un giorno poeta di sé stesso, sublime e leggiadro come Carlo lo è nella sua quotidianità, intellettuale di alto profilo e di una modestia senza pari. Non a caso, la prefazione che scrive per lui il prof. Sergio Della Pergola, Professore Emerito di Demografia e Studi Ebraici Contemporanei all’Università Ebraica di Gerusalemme, è un inno alle sue tesi.
Carlo Giacobbe -scrive lo studioso- ci regala “una boccata d'ossigeno con questo suo saggio che, partendo appunto dalla cronaca tragica del 7 ottobre 2023, dà al lettore un'ampia carrellata sulla storia di Israele e dei suoi problemi. Il percorso di Carlo Giacobbe e molto dettagliato e accurato, sia pure nella sintesi stringata del testo. Ma è soprattutto un richiamo doloroso a essere informati, trasparenti e onesti. Un richiamo di cui si sente grande necessità in questi giorni dolorosi per Israele e per tutta l’umanità”.
Ma perché un libro dedicato alla terra di Israele? E soprattutto in questo momento?
“La realtà che sta dietro la guerra tra Israele e i palestinesi di Hamas e del Jihad islamico -scrive Carlo Giacobbe nel suo libro rispondendo nei fatti a questa domanda- è molto più complessa e contraddittoria di quanto, per esempio, non vogliano far credere manifestanti che, armati di convinzioni e apodittiche scorciatoie socio-culturali, vestono una kefiah di ordinanza e marciano compatti, arrivando persino a scandire 'Allah-u-akbar', in totale solidarietà non solo con i palestinesi ma anche direttamente con Hamas. Tutto maledettamente più complicato anche di quanto dichiara certa stampa che si dice `di destra e che arriva a proclamare una acritica comprensione, quando non addirittura le lodi, verso il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Sono ormai settimane che mi trovo a vivere un dissidio tanto lacerante quanto più sostenuto dalla conoscenza, diretta e per studio, di quei luoghi e dei protagonisti di questo scontro, potenzialmente incontrollabili e disastrosi”.
Carlo Giacobbe è uno di quei maestri del giornalismo moderno -cresciuto alla scuola unica al mondo dell’Agenzia ANSA- che le cose che pensa non le manda mai a dire. Semmai, le mette su carta con una chiarezza che contrasta profondamente con il senso della mediazione a cui forse un cronista non dovrebbe mai venir meno, ma lui è un intellettuale diretto fino in fondo, le cose che scrive sono spesso un pugno nello stomaco, perché nessuno alla fine possa dire “Sorry, ho capito male”. O peggio ancora, “Ho frainteso”.
“Come ho già esplicitato- scrive Carlo Giacobbe- sono schierato con Israele e, non ebreo, ne difendo senza il minimo tentennamento l'ideale sionista che 75 anni fa lo ha fatto nascere. Ma si deve comprendere che cosa si intende per "sionismo", visto che parimenti difendo il diritto dei palestinesi ad avere un loro Stato autonomo e indipendente. Questo, voglio ammettere per onestà intellettuale, non solo perchè ripudio la guerra per principio, ma anche perchè mi piace pensare che se la popolazione palestinese volesse seguitare a islamizzarsi e a condurre la propria vita secondo schemi arcaici, antidemocratici, masochistici e falsamente tradizionalisti (cosa che peraltro, onestamente, non credo) debba comunque essere padrona di farlo, senza che ciò crei interferenze o addirittura conflitti con i vicini ebraici”.
Infine, noblesse oblige, per rimarcare questa sua “consapevolezza di scelta di campo” Carlo Giacobbe ha chiesto al suo editore di mettere in quarta di copertina non la sua foto personale, cosa che ormai avviene tutti i giorni nel mondo dell’editoria, ma una frase di quel grande cantautore italiano che è stato Herber Pagani, e che racchiude il senso assoluto della vita dello scrittore.
“A quelli che mi chiedono: "E i palestinesi?" il grande cantautore risponde così: “Sono un palestinese di duemila anni, sono l’oppresso più vecchio del mondo, sono pronto a discutere con loco ma non a cedergli la terra che ho lavorato. Tanto più che laggiù c’è posto per due popoli e due nazioni". Le frontiere le dobbiamo disegnare insieme. Tutta la sinistra sionista cerca da trent'anni interlocutori palestinesi, ma l’OLP, incoraggiata dal capitale arabo e dalle sinistre europee, si è chiusa in un irredentismo che sta costando la vita a tutto un popolo, un popolo che mi è fratello, ma che rude forgiare la sua indipendenza sulle mie ceneri...”
L'amore che l'autore dichiara verso lo Stato degli ebrei, al di là delle considerazioni sull'attuale governo, e l'idea di fondo di questo lavoro, che in parte si richiama anche a un suo libro precedente intitolato "Il sionista gentile".
Il senso finale è questo: oggi come ieri, se si vuole andare alla radice della più cruciale delle questioni mediorientali, essere contro il sionismo vuol dire una sola cosa, avversare l'esistenza di Israele e, più in astratto, anche l'idea che possa esistere uno Stato così chiamato. Altre letture non possono essercene. Ci si deve però intendere sul significato del termine sionismo -sottolinea Carlo Giacobbe- e qui, fatalmente, si spalanca il baratro delle interpretazioni, delle letture in controluce, delle rozze e apodittiche etichette, delle verità indiscutibili.
Se 75 anni fa i palestinesi avessero accettato la presenza dello Stato ebraico a cominciare dal nome, invece di "Entità sionista" (come ancora oggi preferisce chiamarlo l'Iran), Israele sarebbe una realtà consolidata anche per loro.
Giacobbe non ha nessun dubbio: “Un Paese col quale un "vero" Stato palestinese, e non un semplice enunciato oblativo per dimostrare le buone intenzioni dell'Onu, potrebbe condividere una linea di confine; ne armistiziale né di frontiera, termini che non fanno pensare a rapporti di buon vicinato, ma semmai a tregue sempre in forse. Purtroppo, però, a parte Gaza (dove una tregua, ancorché periclitante, ora già sarebbe uno sviluppo insperato) questo è lo stato delle cose”.
Un libro erudito, un saggio storico moderno, di grande attualità, scritto con una freschezza di linguaggio che lo rende quasi un romanzo popolare, ma pieno di nomi, di date, di circostanze, di analisi, di raffronti, di visione internazionale, ma è questo forse il grande merito dell’autore: l’aver trasformato un tema di politica internazionale in un romanzo d’amore per una terra lontana. Il risultato è da dieci e lode.