Aveva 80 anni Giuliano Di Cola e sul Monte Athos in Grecia 30 anni fa aveva realizzato il suo primo reportage di successo internazionale. Era diventato per antonomasia l’angelo custode dei monaci di clausura del Peloponneso, e a Palermo lo ricordano ancora per le sue mostre dedicate a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Di origini marchigiane era arrivato in Calabria giovanissimo e oggi la Cosenza lo ricorda come uno dei suoi “figli illustri”. Fotoreporter e fotografo d’arte, era nato ad Arquata del Tronto, provincia di Ascoli Piceno, dove si è diplomato presso l’Istituto Professionale di Arte Fotografica. Dopo varie esperienze professionali nelle Marche e numerose partecipazioni alle più qualificate rassegne del settore -prima fra tutte la Biennale Internazionale “Fotografi della Nuova Generazione” organizzata alla Galleria d’Arte Moderna di Milano e al Museo d’Arte Moderna di New York - si stabilisce definitivamente in Calabria, a Cosenza, dove poi muore nell’agosto del 2021.
Ed è in Calabria che attraverso una tecnica tutta sua personale, di elaborazione della fotografia, apre un dialogo per immagini con la realtà umana e ambientale della sua città di adozione, Cosenza, e dell’intera regione. A Cosenza il grande artista scava dentro la città storica, ne coglie l’humus più intimo, e rispetto alle classiche foto “pittoresche” degli anni ’60, va alla ricerca di scorci inediti, privilegia i vicoli, i portali, le scalinate, le botteghe artigiane, le mille facce della disperazione di quegli anni di grande miseria in tutto il Sud Italia, e ne fa dei veri capolavori che danno oggi l’esatta dimensione del tempo passato, lui stesso grande testimone de suo tempo e del patrimonio storico culturale che è ancora da salvare. Giuliano di Cola diceva di sé stesso: “Si può dire che per me la fotografia è il medium di una ricerca della presenza-assenza dell’uomo nel contesto oggettivo in cui vive. Intendo dire – aggiungeva sempre- che se pure i miei soggetti sono muri e strade, essi non parlano esclusivamente di sé stessi ma alludono alla storia, o meglio al vissuto dell’uomo che ha operato e opera fra gli stessi muri e le stesse strade”.
Negli anni ’80 Giuliano Di Cola era una delle grandi firme di "Panorama Mese". L'ultimo suo servizio raccontava le sequenze drammatiche di una morte in diretta: un'esecuzione di mafia fotografata quasi a caldo, nei suoi aspetti più spettacolari, ritmata da una successione di fotogrammi che valgono mille pagine di storia e di sociologia mafiosa. Erano fotografie retinate, riprese attraverso una ragnatela sottilissima di fili concentrici, con questi colori mediati dal filtro e dai toni sempre caldi, quasi belli, violenti comunque.
Giuliano nasce come fotoreporter nel '59, si diploma all'istituto statale d'arte fotografica ad Ascoli Piceno, suo paese d'origine, e nel 1961; in cerca di lavoro sbarca in Calabria, e decide di stabilirsi a Cosenza.
È una residenza, la sua, del tutto singolare. Da ogni parte lo chiamano per dei servizi fotografici che finiscono sui più grandi giornali illustrati d’America; Cosenza diventa così una città albergo dove ritornare, appena il tempo sufficiente, per riposarsi e ripartire. Globe-trotter, infaticabile, come tutti gli animali della sua specie, diventa con il trascorrere degli anni fotografo scrittore.
Sono anni di lavoro durissimo, chi è stato in guerra, per raccontare attraverso le immagini le varie fasi della nostra sa che non è una cosa semplice, ogni giorno si gioca con la morte, in agguato dietro l'angolo, con il mirino puntato sull'obiettivo della camera.
L’operazione di recupero della memoria attraverso le foto della parte vecchia della città che Giuliano sperimenta a Cosenza la ripete anni dopo a Venezia, dove la laguna lo accoglie quasi come un principe della fotografia di quegli anni. Attraverso particolari inquadrature, tagli studiati, rapporti spaziali ben calcolati l’artista ricostruisce per immagini una Venezia incantata, e con un magistrale uso della luce -scriveranno di lui i critici del tempo- “fa rivivere i colori caldi e dorati che hanno ispirato la pittura del Settecento veneziano - da Tintoretto a Caravaggio - creando egli stesso dei quadri d’autore”.
Quelle foto oggi fanno parte del grande tesoro storico della città della Laguna. È un’esperienza forte per Giuliano Di Cola, che per raccontare meglio il senso della festa e dell’accoglienza di questa città bellissima sceglie come “controfigura” la maschera di Pulcinella.
“Con la presenza di Pulcinella fra calli e campielli – raccontava continuamente- ho voluto dare alla mia interpretazione di Venezia un significato che trascende le apparenze. Infatti, al di là dell’evidente documentazione di un incontro-scontro di culture, ritrarre il personaggio napoletano di Pulcinella in un’atmosfera così carica di rimando qual è quella veneziana, è stato un po’ proporre una più dimensione della città lagunare problematica”.
Poi diceva ancora: “In fase di tecnica, in fase di ripresa non ricorro mai ad artifici di alcun genere, ma mi lascio guidare dall’istinto e dal gusto personale. Anche per la stampa opero in modo del tutto normale, direi tradizionale, trasportando poi l’immagine ottenuta su una superficie di tela, dopo averla ripulita dalle scorie di carta”.
L’effetto che “le retinature di Di Cola conferisce alle cose - ai muri e all’acqua di una città in degrado- scrivevano le cronache del tempo- - si commenta da solo osservando le sue fotografie di Venezia esempi di quel fotoreportage culturale attraverso cui il fotografo si esprime”. Ma la sua vita è un crescendo di successi e di riconoscimenti vari.
I suoi reportages finiscono su "Epoca", "Giornale d’Italia", "Gente Viaggi", "Arrivederci, Ulisse 2000 – Alitalia" … e in prestigiose riviste fotografiche come "Il Fotografo Professionista – Kodak" e il magazine svedese "Hasselblad74".
A raccontarlo saranno in tanti, Sharo Gambino, Walter Mauro, Alberto Frattini, Antonino Caponnetto, Vittorio Citterich, Carmine Benincasa, Rocco Mario Morano, Giulio Palange, Sergio Leone, Pietro De Leo, Ottavio Cavalcanti, Luigi Maria Lombardi Satriani, Vittorio Sgarbi, Elio Fata, Emanuele Giacoia, Raffaele Mazzarelli, Serafino Castelli, Franco Portone, Aleardo Rubini, Franco Abruzzo, Salvatore Scarpino, Pino Nano, Carlo Cimino, e le sue foto diventano all’Università della Calabria “un capitolo a parte della storia del neorealismo calabrese”.
“Queste foto dei Di Cola, padre e figlio – scrive Carmine Benincasa, nella sua Prefazione a “Visioni e memorie di Calabria” -fanno balbettare ogni figlio della Calabria, pensando alla sua terra, terremoti di emozioni silenziose. Il tempo della foto è il tempo di una domanda che non attende vane risposte, certifica l'eternità di ciò che lo sguardo vede nel presente. Le fotografie dei Di Cola trattengono il pensiero, così come si trattiene il respiro, per meglio udire il silenzio delle ruote dei secoli che turbinano nel nostro cuore. I Di Cola scrivono su lastre fotografiche di uno stesso quaderno, come su un pezzetto della loro anima”.
Amico personale dei grandi inviati, finisce con il di ventare la spalla di molti di loro. Un giorno, Vittorio Citterich e Costas Papadopoulos lo chiamano a Roma e lo invitano a vivere una settimana insieme a loro, sul Monte Athos. È un'esperienza incredibile. Dopo una marcia a piedi di oltre tre ore, arrivano sulla parte più alta del Monte, in uno dei più antichi monasteri della vecchia Ellade, e qui imparano a conoscere la vita di questi eremiti, che si nutrono di foglie e di essenze aromatiche, pregando e lavorando.
Ne viene fuori una storia fantastica, raccontata per immagini, straordinaria. Sono tutte foto d'autore, che Citterich commenta magistralmente bene, ma che potrebbe anche non fare, tanti sono i colori e gli umori che queste foto riescono a suscitare.
“Immagini- scrive di lui l’antropologo Ottavio Cavalcanti- che ci restituiscono una Calabria del passato, ma che ci offrono, anche, una Calabria del presente. Immagini straordinarie, perché non sono soltanto documenti offerti all'attenzione o alla curiosità del visitatore, ma anche immagini filtrate attraverso una sensibilità da artista”.
Naturalmente in Calabria, per lunghissimi anni e soprattutto a Cosenza, per la gente che lo conosce, Giuliano rimane uno dei tanti, vittima anche lui del vecchio proverbio "Nemo profeta in patria". Pazienza, la vita è fatta anche di queste cose.
Nel frattempo, lo invitano a presentare le sue foto, sulla cultura contadina del Sud, al Museo d'Arte Moderna di New York. È il 1969, la grande critica lo consacra autore suggestivo e di grande talento. Questo gli assicura una partecipazione di diritto alla Biennale Internazionale "Fotografi della Nuova Generazione"; arrivano i primi servizi in televisione, le prime interviste, il GR2, Primissima, quindi il TG1.
Incomincia a stampare i suoi primi volumi, tira fuori dall'archivio personale migliaia di immagini già scattate, e conservate in attesa di una loro catalogazione. Si accorge che c'è, tra tutta questa roba, materiale di enorme valore storico.
Se qualcuno decidesse un giorno di raccontare, attraverso le fotografie d'epoca, la storia dell'evoluzione della realtà contadina e rurale del Sud, dovrebbe, per forza di cose, rivolgersi a lui. L'ultimo incidente professionale, a "Panorama Mese".
Lo chiamano da Milano, e gli chiedono un reportage sulla mafia a Palermo. Giuliano si rimette in macchina e riparte. Sta fuori almeno venti giorni, scatta centinaia di fotografie, le più belle tra i vicoli pieni di insidie e di misteri del mercato del pesce. Manda il materiale a Milano, ma dopo due giorni lo richiamano per dirgli che è "tutta roba che non serve. Il direttore vuole una Palermo mafiosa diversa dal solito".
Giuliano Di Cola non capisce, chiede di farsi passare il direttore: "Caro Giuliano - si sente rispondere - le foto che mi hai mandato potrebbe farle anche mio figlio che non ha mai fatto il fotografo. Mi serve invece una Palermo violenta, ma bella così come sono belle le tue opere".
Giuliano si rimette a lavoro, questa volta si chiude in camera oscura per più di una settimana, tratta ogni fotografia con una soluzione diversa. Riscopre anche in questa occasione il fascino della "retina", alla fine ne viene fuori un ennesimo capolavoro.
Lo chiamano da Milano per congratularsi con lui, ma gli anticipano di prepararsi a ripartire, forse questa volta per raccontare una delle tante sporche guerre della nostra epoca. E per chi, come lui, aveva 45 anni, non era un'impresa comoda. Ma chi nasce fotoreporter sa che questa è la regola.
Del grande Giuliano Di Cola oggi rimane, grazie anche al figlio Cesare che ne ha seguito le orme e che di fatto è diventato poi il suo erede naturale, un grande Archivio fotografico assolutamente esclusivo che racconta magistralmente bene il mondo contadino degli anni ‘70 e ‘80 in Calabria.
“Giuliano in quegli anni – scrive di lui lo storico Pietro De Leo- intuisce l’importanza del fotografo come operatore culturale, come strumento e attore nel processo di pianificazione degli interventi nei centri storici e nel paesaggio in generale; una funzione civile, strumento espressivo certamente ma anche un qualcosa che potesse orientare e aiutare la comprensione del paesaggio e le decisioni degli amministratori. Il paesaggio e il ritratto antropologico come laboratorio per rinnovare il linguaggio della Fotografia stessa e l’impegno intellettuale. Una strategia culturale che individua negli enti pubblici e nelle università dei committenti ideali. Come sosteneva Italo Calvino, osservare i luoghi non per definirli, descriverli, classificarli, ma per aiutare a scoprirli e rinforzare la fiducia nella possibilità di trasformarli”.
Insomma, il massimo riconoscimento viene a Giuliano di Cola dal mondo accademico, che già allora, lui ancora giovanissimo, lo considerava un narratore calabrese di altissime qualità professionali. Ecco perché oggi ci sentiamo tutti un più soli.
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