Quando aveva 11 anni Carlos Soria Fontán iniziò a lavorare, prima come rilegatore e poi come tappezziere. La sua famiglia era poverissima. "A casa - ricorda Soria - non avevamo l'acqua corrente. Ho portato mille secchi d'acqua quando ero bambino. Per questo ho ancora le braccia che ho. Conosco la vita dura, la fame. Mangiavamo le carrube, adesso sono diventate di moda sotto forma di polvere dal sapore simile al cacao, ma noi mangiavamo quelle che si davano agli animali". Nato ad Ávila nel 1939 ha vissuto in pieno gli anni bui della dittatura di Franco. A 14 anni la prima avventura in montagna a La Pedriza, con i sandali da pastore perchè un paio di scarponi non poteva proprio permetterseli.
"Quel giorno ho capito che la natura era il mio mondo, la mia vita". Nessuno poteva certo immaginare che quel ragazzino con i sandali che arrampicava al massimo nella Sierra de Guadarrama avrebbe avuto poi l'opportunità di girare tutto il mondo e di scalare 12 delle montagne più alte della Terra, tra cui l'Everest e il K2. Soria è entrato di diritto nella storia dell'alpinismo soprattutto perché la maggior parte delle sue imprese le ha compiute dopo i 65 anni e quasi sempre senza l'uso delle bombole di ossigeno. Sfide al limite dell'impossibile, schivando valanghe, crepacci ed anche patologie incompatibili con l'altitudine.
"Ho avuto la sindrome di Ménière, che è qualcosa che ti dà vertigini tremende. Mi è successo sull'Annapurna quando stavo per salire in vetta. Avevo 77 anni. Stavo male ma non volevo rinunciare. Per rassicurarli, dissi ai miei compagni di cordata che le vertigini mi sarebbero passate soltanto salendo ancora. E così fu. Non so perchè ma le vertigini scomparirono per sempre". Ora Carlos Soria, a 84 anni, sta preparando una nuova sfida. Tornerà nella catena himalayana per tentare di conquistare il Dhaulagiri, con una protesi al ginocchio e gli arti inferiori deformati da settant'anni di roccia e di gelo. Con i piedi così conciati, a detta dei medici, un uomo normale farebbe fatica a camminare nel giardino di casa, figuriamoci a 8000 metri.
"Non inseguo i record, lo faccio solo per passione. Di tutte le avventure che ho avuto, la lezione è che devi lasciare un segno positivo della tua vita". Soria si trovava in Nepal quando si verificò il disastroso sisma del 2015. Abbandonò il campo base della sua spedizione per distribuire riso e legumi ai terremotati. E ancora adesso è impegnato al fianco della popolazione nepalese. Con una piccola associazione, Direct Aid, è riuscito a far realizzare sei scuole in luoghi dove non passa il turismo, lontano da Kathmandu.
"Scalare se fosse solo per scalare vette sarebbe ben poco. Si fanno molte eperienze attraverso l'arrampicata: viaggiare, conoscere persone e altri stili di vita". E a chi gli domanda se lascerà l'alpinismo una volta raggiunto l'obiettivo delle 14 vette più alte del mondo, lui replica così: "Le montagne non le lascerò mai, ripartirò da quelle più basse".
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