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La caduta di credibilità è disastrosa, un colpo micidiale sulla strada della costruzione di un’inattaccabile leadership nel frastagliato mondo della sinistra-sinistra: Maurizio Landini, offensivamente definito dal Riformista “compagno padrone”, il 4 luglio scorso ha licenziato lo storico portavoce della Cgil, Massimo Gibelli, liquidato ben due anni fa, come un lusso che la Cgil non poteva consentirsi.
Gibelli, 64 anni, vive la soppressione dell’ufficio-comunicazioni che aveva coperto da oltre quaranta anni- da Luciano Lama in poi con Trentin, Cofferati, Pizzinato,Camusso, Epifani, leaders sindacali di massimo prestigio che hanno scritto la storia non solo della Cgil ma dell’intero sindacato italiano- con tristezza e il dolore di un tradimento di valori etici in cui ha sempre creduto e che , pensava, non potessero essere calpestati dall’Istituzione-Sindacato. Non si rassegna e reagirà per via giudiziaria.
Ma è il caso di raccontare le modalità del ” licenziamento per giustificato motivo oggettivo” del tutto uguali a quelle che usa un qualsiasi datore di lavoro: lettera raccomandata a mano in cui si specifica “che la data odierna, 4 luglio 2023, è da considerare l’ultimo suo giorno di lavoro”.
Non mancano i ringraziamenti e i saluti di rito. La scoperta che l’ufficio del portavoce è un lusso che la Cgil, dopo 40 anni, non può permettersi la fa Landini, nel 2019, quando viene eletto segretario. Gibelli era stato assunto, come addetto stampa, nel 1983, nella Cgil piemontese guidata da Fausto Bertinotti.
Aveva, dunque, la tessera di socialista che non ha mai ripudiato.
Landini lo lascia per due anni senza trovare, per un dirigente di così alto curriculum professionale, alcun impiego e utilizzazione per ben due anni. Rinuncia al portavoce per il costo eccessivo (55 mila euro all’anno) che la Cgil non può permettersi e, però, partecipa, con una quota del 48,8 %, alla costituzione di una s.r.l. “Futura” con il compito di curare la comunicazione, garantendo le esposizioni che, tradotte in oneri corrisposti dal 2021 avrebbero superato di molto il milione di euro, ogni anno.
Il licenziamento di Gibelli non era, dunque, motivabile con il costo eccessivo del servizio. Landini non lo ha saputo o voluto o potuto spiegare. Del resto, le invocate ristrettezze finanziarie della Cgil non hanno senso: è un’organizzazione che conta oltre cinque milioni di iscritti, sia pure a maggioranza pensionati, composta da 12 categorie nazionali, 21 strutture regionali, 102 Camere del lavoro, patronati, Caaf, società, come si è detto, di comunicazione, sedi all’estero in tre continenti, incarichi in enti pubblici e in commissioni di varia natura, retribuiti e non.
Il fatto clamoroso di questa vicenda, al di là di ogni inevitabile e grave implicazione politica, sta nell’utilizzazione delle pieghe giuridiche dell'odiato Jobs Act per giustificare e motivare come “oggettivo” il licenziamento dello storico portavoce della Cgil.
Alcuni giuslavoristi spiegano che la riforma Renzi ha cristallizzato la tendenza a non applicare l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori anche per le organizzazioni sindacali.
Insomma, prima del Jobs Act i sindacati potevano aggirare l’art. 18 in una serie di casi evitando di subire il provvedimento del giudice che, dando ragione ai lavoratori, potevano reintegrarlo nei posti di lavoro perduti. Dopo decenni di sentenze che sospendevano la tutela dell’articolo 18 in diversi casi, Il Jobs act ha posto fine alla distinzione tra aziende e sindacati. Una tendenza aspramente combattuta da Landini quando guidava la Fiom e che ora rinnova anche con il proposito del referendum abrogativo, sostenuto, con molti mal di pancia all’interno del Pd che, a suo tempo, aveva convintamente approvato la riforma, dalla segretaria Elly Schlein.
E siamo al clamoroso paradosso del Landini, leader della sinistra dura e pura.