A partire dal luglio del 2020, da quando cioè la magnitudo micidiale della prima ondata di Covid nel mondo cominciava ad ammortizzare il suo impatto in una probabile ripresa della vita normale e produttiva, son cominciati a fioccare libri e saggi di ogni genere e grado: dossier ambientalisti, j’accuse contro l’Antropocene galoppante, memoire di virologi superstar, diari filosofici, pamphlet contro l’impasto venefico di media, malattie collettive e potere, finanche favole per spiegare ai bambini che i microrganismi sono più letali di bocciature e pallonate in fronte…
Fra le opere dimenticabili è arrivato a novembre questo “I non-luoghi del Coronavirus” (Mimesis) di Pierre Dalla Vigna, professore associato a Comunicazione alla università di Varese. Una scrittura schizofrenica, a giudicare dai toni e dall’andamento dei due capitoli portanti, dentro i quali si ravvedono con la lanterna di Diogene rari momenti di lucidità intellettuale, poiché il modus di tutto il testo è una circolazione caleidoscopica di frammenti di una ermeneutica disperata del tema-pandemia, che resta inconcludente, asimmetrica, gaudentemente e narcisisticamente popsofica, e dunque per principio senza un posizionamento chiaro, preciso, espressivo, utile, che non sia la propria improbabile rapsodia auto-assolutoria.
Ma andiamo per gradi. Dalla Vigna nella prima sezione del libro sembra preda di un realismo talebano, laddove “il dato inoppugnabile del pericolo virale giustifica il dispiegarsi di tale legislazione d’emergenza”, usa il presente storico come scivolosa fonetica asseverativa e mai contraddetta per le delazioni dei vicini verso chiunque contravvenisse alle rigide preclusioni iniettate nel tessuto sociale dal Comitato tecnico e dai diktat della presidenza del Consiglio, strizza l’occhio alle ingerenze investigative della Corea del Sud dove, nonostante “conseguenze per i malcapitati”, un certo tipo di “rimedio ha favorito la messa sotto controllo della pandemia”, si accanisce in maniera neanche tanto velata – fino a farla diventare la vera ossatura occulta del libro – contro minimizzatori e “negazionisti”, si genuflette enfaticamente verso i rappresentanti ufficiali della Scienza e della Protezione civile la cui “necessaria presa in carico” del problema avrebbe concesso momenti di respiro e conforto alle vittime spezzate e spiazzate dalla circolazione del morbo. Tutto sarebbe avvenuto secondo un Fatum, un Buono&Giusto verso il quale essere negligenti o dissidenti non è concesso.
Si capisce fra le righe che questo primo pezzo del libro è stato scritto nelle immediate adiacenze dell’inizio dell’emergenza sanitaria, a marzo 2020, con un picco isterico da obnubilare la ragione (ma allora perché se il libro è uscito ben otto mesi dopo, non ne sono state corrette alcune incongruenze temporali e interpretative alla luce di tanti accadimenti successivi?).
Ma per fortuna, a pagina 44 e 46, baluginano dei motivi di inveramento legati al fare “narrazione” mediatica e istituzionale dei fatti, fino al paradosso di una grottesca auto-invalidazione sui convincimenti illustrati fino a quel punto. Perché – si chiede Dalla Vigna – vengono diffuse senza freno - e senza etica mediazione da parte di giornalisti sempre più esautorati dalle classiche deontologie e inchiodati a cialtronesche pratiche mercantili, mi permetto di aggiungere – “cifre del tutto inattendibili” su contagi e ricoveri, cangianti per metodo da regione a regione? Già, perché?
E perché la tradizionale polmonite che nei paesi africani porta alla morte fino a 800mila bambini non solleva “questo allarme sociale mondiale”, si chiede sempre l’autore come ripresosi da una malsana ubriacatura ideologica? Già, come mai, visto che il professore insegna Estetica dei media e dunque dovrebbe trovarsi a suo agio nelle semantiche massmediali? Ai posteri l’ardua sentenza. Posteri che nemmeno col secondo capitolo si ristorano, visto che non si capisce una certa masturbazione cine-horrorofila dedicata alla figura dello zombie, da Seabrook a Romero, a Matheson, dove voglia andare a parare.
Chi sarebbe il morto-vivente del terzo millennio secondo Dalla Vigna? Certamente un individuo già spersonalizzato e reso inerte, lobotomizzato e ipervitaminizzato dai circuiti mercantili e immateriali, che ha rinunciato al duro mestiere di vivere poiché sguazza fra oggetti, design e psicologie d’accatto, e che, adesso, in pieno lockdown e Italia arlecchina, si trova ancor più distanziato e virtualizzato in ogni atto e anelito di prossimità.
Sicché, di fronte a una pletora di attacchi all’incolumità e alle certezze della persona, resa ancor più vulnerabile dal virus, rimarca a giusta ragione Dalla Vigna: “Gli stessi poteri politici, che si sono rivelati definitivamente impotenti a garantire sicurezza, e che sono facilmente imputabili di avere quantomeno aggravato l’insicurezza diffusa attraverso il ridimensionamento, in tutto il mondo, dei sistemi di welfare, sanità pubblica, apparati educativi, sono considerati un problema, piuttosto che i costruttori di soluzioni”.
Concetto ineccepibile, per carità, ma che arriva tardivo e in maniera accartocciata. Siamo nel confusionarismo più totale. Ma non è esattamente quello che sostiene il filosofo Roberto Esposito a un cui passo ponderato, proprio nelle prime pagine del libro, Dalla Vigna non attribuisce la giusta caratura euristica, là dove Esposito fa capire come i processi di immunizzazione si trasformino in una “gabbia in cui finisce per perdersi non solo la nostra libertà, ma il senso stesso della nostra esistenza – quell’apertura fuori di se stessa cui si è dato il nome di communitas”? Poco oltre, sempre di Esposito, si cita il concetto di “politicizzazione della medicina” e di come la politica stessa intervenga a sedare “paure che essa stessa produce”, giusto per fomentare un carattere protettivo rispetto a “rischi reali e immaginari”.
Insomma, ciò che viene colto da Dalla Vigna sessanta pagine dopo, viene tradito sessanta pagine prima, come se la sua vis ispiratrice avesse ceduto il passo troppo precocemente a una insostenibile critica tranchant di maestri di non facile liquidazione. E non è lo stesso trattamento riservato a un altro passo, stavolta del filosofo Giorgio Agamben, ridicolizzato da Dalla Vigna come una sorta di zuzzurellone del sapere filosofico, paranoico e cospirazionista, quasi da reclutare nella lista degli “idioti” che coltivano dietrologie e negano i patemi e i decessi nelle terapie intensive?
Sempre nelle prime famigerate pagine del libro, si cita una riflessione di Agamben dove questi fa capire come gli “stati di panico collettivi” abbiano preso il posto, all’interno delle fluttuazioni dell’opinione pubblica, del terrorismo di vecchio stampo, fino a dire: “Così, in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo”. Stesso target di Esposito. Ma per Dalla Vigna questo è tritame post-strutturalista, quando non esplicitamente abbaglio o ebbrezza, o castroneria.
Ma, come si vede, le circonvoluzioni e le carambole teoretiche fra primo e secondo capitolo del libro sono tali da avere di fronte non un’opera filosofica, ma un piroscafo impazzito su un mare forza 4. Questo brano è tratto da uno di tanti interventi raccolti da Agamben durante le prime settimane dell’epidemia. Peccato che Dalla Vigna non abbia letto la raccolta definitiva di questi scritti, “A che punto siamo?” (Quodlibet).
Lì avrebbe trovato ben spiegato il concetto di “cospirazioni oggettive”, ovvero quelle – dice Agamben – “che sembrano funzionare come tali senza che siano dirette da un soggetto identificabile”. Tesi interessantissima, già sostenuta da Derrida, secondo la quale la patetica e fumettistica interpretazione degli “stati di eccezione” come di una Spectre jamesbondiana che si siede attorno a un tavolo e decide le sorti dell’umanità, sarebbe ampiamente superata da un interesse alla conservazione dello status quo che si implementa in progress, non ab origine, trovando proficuo, strada facendo, un labirinto sempre più soffocante di persecuzioni, sentimenti generalizzati di pericoli incombenti e inibizioni poligonali dei diritti e del vivere civile, senza che nessuno possa definirsi “capo” o artefice. Sempre per trasformare in macchietta le tesi agambeniane, Dalla Vigna cita pretestuosamente e sbrigativamente un passo tratto da “Virus” di Slavoj Zizek (Ponte alle Grazie) dove lo stato di eccezione viene scartato dallo psicanalista sloveno come una boutade filosofica non in linea con il sinuoso serpente monetario del Capitale.
Peccato che anche qui Dalla Vigna si fermi sulla soglia. Poco oltre Zizek dice: ““Dove finiscono i dati e dove comincia l’ideologia? Come si spiega l’ossessione per il coronavirus quando migliaia di persone muoiono ogni giorno per altre malattie infettive?... Il panico che ci ha assaliti per l’epidemia non è solo il frutto di un piano orchestrato da chi è al potere (perché il grande capitale dovrebbe rischiare una crisi colossale?), si tratta di un allarme genuino e fondato. Ma il fatto che i mezzi di informazione si occupino ormai in maniera quasi esclusiva del coronavirus non dipende da fatti neutri, presuppone invece una scelta ideologica.
Forse, possiamo concederci al riguardo una moderata teoria del complotto”. Ecco, torna l’idea di un “complotto” gentile, soft, inavvertito, calmierato secondo le onde e le tettoniche dello spavento maturato dal basso nella popolazione e inoculato da più fonti, non solo quella biologica, fatto di pressione televisiva, saturazione nervosa, consorterie finanziarie che devono vendere prodotti, errori gestionali, truffe conclamate, mantenimento di privilegi e poltrone, disastroso fallimento di piani vaccinali, saccheggi burocratici, inchieste condotte da tante procure, mancanza totale di sobrietà onestà ed etica nella comunicazione pubblica di dati reali.
Siamo sicuri ancora che il Covid sia il nostro unico dirimpettaio, puro e virginale nella sua perniciosità iniziale, transitoria e futura? E dire che Dalla Vigna nell’introduzione si ripropone come mission il “cercare di capire quali siano le forze in campo, come si configurino poteri e strategie di dominio”.
Sic! L’ossario di Foucault sarà esploso più e più volte. Una prece per lui e requiem al pensiero critico.
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